Salvatore, Teatri dell'Ombra
Da due decenni, il lavoro di Nicola Salvatore procede per scarti improvvisi d'attenzione, di curiosità, di scommessa operativa, sul piano delle scelte problematiche; ma insieme mantiene un'attitudine costante d'analisi, di scrutinio ora severo ora ironico e spettacolarizzante, che fa di ogni ciclo di opere sue una dimostrazione di quanto il clima concettuale, al di là di modi e nominalismi, abbia fertilmente operato nei corsi dell'arte recente. Lo schiudersi del decennio in corso ha visto nascere la sequenza di sculture opache e potenti che ora si presenta. Sono totem straniati ma potenti ancora, cui l'evidenza cruda del ferro conferisce un'assertività spaziale d'oscura e forte qualificazione. Ma il ferro è insieme pagina, plesso bidimensionale che aspira a riguadagnare, nella lettura, una sorta di teorica neutralità: e sopporta la sovrapposizione e proiezione di un oggetto fisico, l'elica il mestolo il gancio la sfera...
Sono, queste, cose; figure del mondo a loro volta intrise d'ovvio e d'opaco, ma dotate d'un grado alto di riconoscibilità, e insieme d'una shape che trascorre rapidamente -e inavvertitamente quasi- all'allusione, al barbaglio simbolico. Sono, come nelle nature morte di genere cui con arguzia partenopea Salvatore fa blandamente il verso (affratellandosi, negli intenti non nei modi, a un fratello maggiore del profilo di Del Pezzo), delle sorte di segni mondani astraibili, attraverso i quali far passare ragionamenti e problemi altri, di forma, di spazio; di rappresentabilità del mondo, di ripensabilità della ragione storica dell'arte. Infatti Salvatore, con un colpo di teatro processuale, li incatena alla pagina di ferro attraverso l'ombra, la quale si scava, non metaforicamente, sino a farsi a sua volta movenza e ragione plastica dell'immagine: e insieme, già punto di crisi e trascorrimento delle ragione del vedere, del pensare la visione ordinatamente, secondo le buone convenzioni proiettive.
L'ombra allora, in una sorta di delirante paradosso cézanniano, ribalta il mito schlemihliano e atavico e, dichiarandosi a un grado impertinente di fisicità, ruba l'anima dell'oggetto, ne pone in mora l'identità, lo riduce a simulacro vacuo proprio perché imprigionato nella sagoma grave del metallo.
E operazione di lucida contraddizione, questa di Salvatore, che adotta clausole e implicazioni concettuali tipiche della cultura del disegno in una pratica ad alto, ed enfaticamente esplicito, grado artigianale, fabrile: avendo per nucleo problematico proprio questo scambio di ruoli, questa inversione brusca e fastosa di codice. Era così, d'altronde, anche nei momenti alti di tutto il suo corso d'opera.
Penso alla serie recente di Nero d'ombra, con cui Salvatore ha doppiato il mutamento di decennio: la stessa classe di oggetti, il supporto ambiguo d'una coperta, e la nerità vischiosa dell'ombra a dir corpo su corpo, sino al punto della perdita della nozione proiettiva in favore d'una evidenza intarsiata di stendardo: e stendardi erano, null'altro, le opere esposte nell'hangar per aerei comasco un paio d'anni fa.
Penso, proseguendo à rebours, ai feticci di disinnescata sensuosità, quasi icone d'ironia mortale, calati nel lucore vischioso delle resine, nuovamente a straniare il corporeo sino alla contraddizione fisica. Penso alla sequenza fitta di figurini femminili dal piglio veloce e brillante che hanno occupato pressoché tutto il decennio passato. Più livelli parodici, là, erano in gioco, sotto la spoglia accattivante sino alla stucchevolezza: era la corsività abbreviata e saporosa dello "stile di moda" che agiva sull'iconografia, ma anche il retrogusto arguto che giocava sul mito della velocità boldiniana, sulle sprezzature degli Schifano e dei Jenney, e rimuginava con deliberata affettazione sui cinismi nuovi del segno in corso nell'arte. Ma sono soprattutto i due momenti cruciali delle compresse sinossi grafiche che citano i luoghi topici dell'arte (da Matisse a Carrà), e la serie delle Balene con cui negli anni Settanta il lavoro di Salvatore trova la sua prima autorevolezza, a far da autentiche sponde concettuali al lavoro d oggi.
Applicando a Matisse, a De Chirico, a Morandi, a Carrà, quello che Roberto Sanesi avvertiva come il "principio di sollecitazione lantasmatica", Salvatore scandiva per sottrazioni e scritture in negativo la qualità plastica di presenza delle figure, in un divertito e allarmante teatro di perdite, della forma e del senso.
Più ancora, nelle Balene, agiva una sorta di ancor più crudamente iterativa operazione anatomica: non dell'immagine dell'animale, macerata sino a farsi il fantasma di se stessa, nulla più che una figura ormai orfana di referenza, ma della possibilità stessa di figurare, di rappresentare. La crisi, il vaglio impietoso, riguardava la presunzione intellettuale e tecnica di rifar essere il mondo attraverso segni: come se la magrittiana pipa dipinta non solo non fosse una pipa, ma neppure un fantasma plausibile. Segni ciechi e muti al mondo, pura e neppur drammatica registrazione dell'impossibilità di riaprire il varco tra sensi e senso; segni iterativi, che si ridanno all'infinito, senza storia senza destino. Proprio come, ora, questi corpi di oggetti, queste ombre che sì fanno sagoma materiata, ma sono incapaci ancora di pensarsi corpo.
Flaminio Gualdoni
Sono, queste, cose; figure del mondo a loro volta intrise d'ovvio e d'opaco, ma dotate d'un grado alto di riconoscibilità, e insieme d'una shape che trascorre rapidamente -e inavvertitamente quasi- all'allusione, al barbaglio simbolico. Sono, come nelle nature morte di genere cui con arguzia partenopea Salvatore fa blandamente il verso (affratellandosi, negli intenti non nei modi, a un fratello maggiore del profilo di Del Pezzo), delle sorte di segni mondani astraibili, attraverso i quali far passare ragionamenti e problemi altri, di forma, di spazio; di rappresentabilità del mondo, di ripensabilità della ragione storica dell'arte. Infatti Salvatore, con un colpo di teatro processuale, li incatena alla pagina di ferro attraverso l'ombra, la quale si scava, non metaforicamente, sino a farsi a sua volta movenza e ragione plastica dell'immagine: e insieme, già punto di crisi e trascorrimento delle ragione del vedere, del pensare la visione ordinatamente, secondo le buone convenzioni proiettive.
L'ombra allora, in una sorta di delirante paradosso cézanniano, ribalta il mito schlemihliano e atavico e, dichiarandosi a un grado impertinente di fisicità, ruba l'anima dell'oggetto, ne pone in mora l'identità, lo riduce a simulacro vacuo proprio perché imprigionato nella sagoma grave del metallo.
E operazione di lucida contraddizione, questa di Salvatore, che adotta clausole e implicazioni concettuali tipiche della cultura del disegno in una pratica ad alto, ed enfaticamente esplicito, grado artigianale, fabrile: avendo per nucleo problematico proprio questo scambio di ruoli, questa inversione brusca e fastosa di codice. Era così, d'altronde, anche nei momenti alti di tutto il suo corso d'opera.
Penso alla serie recente di Nero d'ombra, con cui Salvatore ha doppiato il mutamento di decennio: la stessa classe di oggetti, il supporto ambiguo d'una coperta, e la nerità vischiosa dell'ombra a dir corpo su corpo, sino al punto della perdita della nozione proiettiva in favore d'una evidenza intarsiata di stendardo: e stendardi erano, null'altro, le opere esposte nell'hangar per aerei comasco un paio d'anni fa.
Penso, proseguendo à rebours, ai feticci di disinnescata sensuosità, quasi icone d'ironia mortale, calati nel lucore vischioso delle resine, nuovamente a straniare il corporeo sino alla contraddizione fisica. Penso alla sequenza fitta di figurini femminili dal piglio veloce e brillante che hanno occupato pressoché tutto il decennio passato. Più livelli parodici, là, erano in gioco, sotto la spoglia accattivante sino alla stucchevolezza: era la corsività abbreviata e saporosa dello "stile di moda" che agiva sull'iconografia, ma anche il retrogusto arguto che giocava sul mito della velocità boldiniana, sulle sprezzature degli Schifano e dei Jenney, e rimuginava con deliberata affettazione sui cinismi nuovi del segno in corso nell'arte. Ma sono soprattutto i due momenti cruciali delle compresse sinossi grafiche che citano i luoghi topici dell'arte (da Matisse a Carrà), e la serie delle Balene con cui negli anni Settanta il lavoro di Salvatore trova la sua prima autorevolezza, a far da autentiche sponde concettuali al lavoro d oggi.
Applicando a Matisse, a De Chirico, a Morandi, a Carrà, quello che Roberto Sanesi avvertiva come il "principio di sollecitazione lantasmatica", Salvatore scandiva per sottrazioni e scritture in negativo la qualità plastica di presenza delle figure, in un divertito e allarmante teatro di perdite, della forma e del senso.
Più ancora, nelle Balene, agiva una sorta di ancor più crudamente iterativa operazione anatomica: non dell'immagine dell'animale, macerata sino a farsi il fantasma di se stessa, nulla più che una figura ormai orfana di referenza, ma della possibilità stessa di figurare, di rappresentare. La crisi, il vaglio impietoso, riguardava la presunzione intellettuale e tecnica di rifar essere il mondo attraverso segni: come se la magrittiana pipa dipinta non solo non fosse una pipa, ma neppure un fantasma plausibile. Segni ciechi e muti al mondo, pura e neppur drammatica registrazione dell'impossibilità di riaprire il varco tra sensi e senso; segni iterativi, che si ridanno all'infinito, senza storia senza destino. Proprio come, ora, questi corpi di oggetti, queste ombre che sì fanno sagoma materiata, ma sono incapaci ancora di pensarsi corpo.
Flaminio Gualdoni