Due asterischi per Nicola Salvatore
*L'eredità della pittura
«Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile ed invisibile: la pittura confonde tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di rassomiglianze efficaci, di significazioni mute». E quanto segnala Merleau-Ponty in uno dei passi salienti del suo ben noto L'occhio e lo spirito, il saggio scritto nell'estate del 1960 poco prima della sua morte. Non meravigli pertanto tale citazione posta in apertura di queste pagine scritte quale introduzione alla mostra che oggi la Galleria Comunale d'Arte Contemporanea di Scafati dedica a Nicola Salvatore, incentrata sul lavoro degli ultimi due anni nel corso dei quali la scultura ha lasciato registrare una maggiore prevalenza applicativa, rispetto all'origine di un "fare pittorico" proprio della sua formazione. Salvatore nasce dunque pittore a metà degli anni Settanta: una sorta di imprimatur, non privo di peso e significato per quella che sarà 1'evoluzione, fino alla data odierna, del suo percorso immaginativo. Per quanto infatti quelle esperienze si collocassero nell'area di un dettato ludico-parte-cipativo (mi riferisco naturalmente al declinatissimo ciclo delle "balene") segnato da interferenze, soprattutto dopo le ambientazioni salernitane, di sapore concettuale, v'era già in esse una sorta di presa a distanza da questo assunto, evidente non tanto nel tema prescelto, l'ironico, nella sua inquietante invenzione, ed iterato ricorrere alla figura del mammifero proposto attraverso una dissezione anatomica che ne svuotava la forma fino a renderla simulacro di se stessa, quanto piuttosto nella propensione a non abbandonare del tutto la pittura anche se intesa nei modi di una riduzione grafica stesa, sul finire degli anni Settanta, attraverso un linearismo non privo di gestualità. Insomma è come se la fascinazione di quel clima che aveva trovato una sua affermazione, più propriamente sullo scadere del decennio precedente, mediante il rifiuto dell'oggetto-opera d'arte in virtù di un processo mentale che rinviava alla formazione dell'idea di queir oggetto, operando quindi sul piano di una riduzione linguistica, lo avesse, nella sua estensione, catturato, ma non nella misura tale da distoglierlo dall'idea del fare pittura. Una verifica del resto di questa sua inclinazione è registrabile nelle scelte operate dall'artista successivamente. Dopo un momento ancora di orientamento verso la sponda concettuale, non esente da evocazioni pop che lo porta, nei primi anni Ottanta, ad incrociare tautologicamente i sentieri della storia dell'arte appunto con i lavori dedicati a Matisse, Carrà, De Chirico, ove è ancora il gioco delle parvenze, tra immagine e sua negazione, a farsi avanti mediante una grafia veloce che volge anche in scrittura, facendo il verso, anche solo in termini di consapevolezza critica, latamente a Schifano, ecco dunque Salvatore, a metà del decennio, approdare propriamente alla pittura. L'assunzione del colore in veste di una forte dose espressiva, arricchita di una gestualità frenetica distesa anche tra vere e proprie sovrapposizioni di materia che palesano quanto nascondono, destrutturandole nella loro fisicità, quelle longilinee figure femminili, sagome ancora una volta di quel ciclo che Dorfles ebbe a definire "pittura della quotidianità e dell'estemporaneità", rappresenta dunque un ulteriore veicolo di comprensione rispetto al suo operare. Una ricerca che appare in qualche modo irrisolutamente divisa tra le ragioni di un fare tradizionale magicamente allusivo e la presentazione (non dunque rappresentazione) di quella porzione di mondo sul quale l'artista apre lo sguardo. Ne sono esempi prima le "resine", lavori connotati da una matrice fortemente oggettuale, come successivamente, tra la chiusura del decennio ed i primi anni Novanta, la serie delle "coperte" ove il recupero del piano come supporto inerente la problematica della pittura non tralascia di incontrare, l'oggetto già dato, carico di richiami esistenziali, con un' esplicita vocazione al prelievo nella sua concretezza. V'è al contempo il desiderio di porre in evidenza il valore raffigurativo della sua immagine evocata dal gioco delle ombre, quest'ultimo leitmotif di quei dipinti realizzati fra il 1992 e il '96. E' questo, credo, il momento più eloquente di questo iter. Un momento significativo per un grado di raggiunta maturità che porta l'artista a scoprire, mi sembra senza affanno, quel suo insito tendere a dialogare con l'immagine ricreata nei termini di una visione che opera tra superficie e volume, tra spazio della pittura e corpo della scultura. Significativo dunque propriamente per quelli che sono gli esiti odierni, ma anche forse per quel suo dichiararsi, uscire allo scoperto nel gioco delia visione immaginativa nel quale è soprattutto la pittura a sostenerlo. "Da Lascaux - ci ricorda ancora Merleau-Ponty - ai nostri giorni, in qualsiasi civiltà nasca, di qualsiasi credenza, di qualsiasi motivazione, di qualsiasi pensiero, di qualsiasi cerimonia si circondi, pura o impura, figurativa o no, la pittura anche quando sembra destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quello della visibilità".
** corpo dell'immagine
Che cosa sarebbero quegli oggetti, cucchiai, mestoli, arpioni, ganci, eliche, che Nicola Salvatore pone a corredo delle sue forme plastiche, ovviamente come parte integrante di esse, senza quel gioco di ombre che li manifesta nella loro essenza vitale? Probabilmente niente altro che oggetti. Il repertorio di una quotidianità che da sempre lo intriga, scoperta ed indagata alla luce di un forte potere immaginativo. Non credo pertanto che questo sguardo di ricognizione che lo porta ad isolare fisicamente l'oggetto, pur con quel tanto di simbolico che esso racchiude, sia, negli esiti di una scultura di matrice oggettuale, l'obiettivo inseguito dall'artista. V'è al fondo del suo procedere per sculture come Contrappeso, Gancio, Grande mestolo verticale tutte del 1998, o ancora 8 cucchiai, Mestolo realizzate nel corso di quest'anno unitamente alla recentissima Rinascimentale che oggi qui si presentano, una intenzionalità altra che appare ben evidente osservando le risoluzioni tecniche adottate per esse dall'artista. Da quando infatti nei primi anni Novanta, come naturale evoluzione del ciclo delle "coperte", Salvatore è passato ad introdurre nella sua ricerca la materia, il ferro prevalentemente, consacrando, con la nascita di quelle sculture, una propensione alla tridimensionalità, lo ha fatto seguendo un processo squisitamente personale che lo ha portato nel tempo a misurarsi ancora con la pittura. Voglio dire cioè che la necessità di aprire alla materia, di sondare le sue intime possibilità, affrontando in primis problemi di forma e di spazio, ha significato per l'artista trasferire in questa nuova dimensione il proprio bagaglio formativo e sufficientemente esperito di pittore. Scavando in quelle sottili lamiere di ferro la forma-sagoma (data come ombra) dell'oggetto (si veda in tal senso Piccolo mestolo, Campanaccio entrambe del 1992, Grattugia del 1993), l'artista mira ad indagare la consistenza dei volumi, delle forme ed il loro rapporto con la materia (sovente rame o ottone): è come se Salvatore avesse teso ad allargare il proprio campo d'azione utilizzando quindi la scultura per dare corpo e sensualità all'immagine rimarcando il valore che essa assume nello spazio. E' una riflessione che va alle radici del processo creativo della scultura, spinto alla dimostrazione dell'esistenza di qualcosa, di quella parte del mondo che vuole renderci visibile. Come a dire, quasi a testimoniare, che quelle cose, quei segni mondani sono veramente lì solo in virtù di una illusiva prospettiva che partecipa alla costruzione di uno spazio dove possano manifestarsi nella loro essenza. Si tratta di un procedimento in fondo che l'artista mutua dunque dall' esercizio della pittura, dalle possibilità che questa offre di rendere materiale l'immagine attraverso quei fenomeni connessi alla luce, alle ombre, al colore e le infinite tonalità e potenzialità riflettenti. Un esercizio che appare ben evidente in quella serie di carte che affiancano, meglio sarebbe dire precedono le sculture poc'anzi citate, così come in quei dipinti, neri e catramosi, realizzati a metà del decennio. Sono del resto proprio queste esperienze, quel suo scavare nel foglio bianco alla ricerca di suggerimenti prospettici, tracce figurali, che rimandano alla trascrizione di un pensiero, quanto quel suo muovere nello spessore della materia cromatica inseguendo la forma at traverso lo scarto di minimi passaggi di luce, a porsi alla base delle sculture realizzate negli ultimi due anni. Un lungo indice di composizioni plastiche entro le quali Salvatore ripete, come per le lamiere, il medesimo espediente, sottolineando quindi la presenza di una forma che vive sul corpo della scultura come soggetto ricreato dal suo sguardo interiore. Lo fa lasciando peraltro invariato quel repertorio di elementi, oggetti iterati come proiezioni di un proprio vissuto quotidiano. Dall'altra parte interviene, però, con un rin novato registro, sulla struttura complessiva della forma plastica che assume ora il linearismo svettante della verticalità come per la serie delle "colonne" (iniziata fin dal 1994) tra le quali si segnalano opere come Sega-S, Aratro, Catena tutte datate al 1997 o ancora Spirale del 1998, ora invece la chiusa rotondità del cerchio come si riscontra in Obelisco, Sole dentro sempre del 1997, Gancio, Arpione del 1998 o in Mestolo del 1999 e nella citata Rinascimentale, sculture queste ultime che ribaltano il concetto di verticalità in virtù di una marcata orizzontalità compositiva aderente al terreno. Sono opere che quasi sempre l'artista lascia precedere dal disegno, quelle carte alle quali, pur in una loro finitezza, affida il progetto, l'idea che, dal piano, troverà una sua "materica" concretezza nella scultura. Quest'ultimo un "luogo" prescelto dall'artista, ancora una volta per indagare il rapporto tra la forma e lo spazio. Nel confronto con la materia, che si apre, oltre il ferro, all' ingresso di nuovi materiali, il bronzo (si pensi appunto alla serie "bronzi" del 1999, proposti come multipli), la terracotta, il legno, Salvatore sembra ribadire il suo desiderio di comunicare, di dare un corpo all'immagine, di rendere "visibile" l'esperienza emotiva dello sguardo, ivi comprese quelle "figure" magiche che attinge dal bacino di una cultura dell'archetipo ben viva al fondo del suo immaginario. Sono, dunque, il gancio, la catena, il mestolo, l'arpione, segnali di quel suo vivere il presente, di quel misurarsi nello spazio che assume per lui il significato di durata temporale, di esistenza veritiera, e fragrante nella sua essenza, solo nella messa in atto della proiezione (l'ombra come gioco cromatico rintracciabile anche nelle tracce stesse del ferro arrugginito, delle venature del legno o della specchiante luminosità del bronzo). Insomma un singolare processo che sembra ricordare quanto sosteneva Picasso; vale a dire che «la scultura è il miglior complimento che si possa fare alla pittura».
Ada Patrizia Fiorillo
«Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile ed invisibile: la pittura confonde tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di rassomiglianze efficaci, di significazioni mute». E quanto segnala Merleau-Ponty in uno dei passi salienti del suo ben noto L'occhio e lo spirito, il saggio scritto nell'estate del 1960 poco prima della sua morte. Non meravigli pertanto tale citazione posta in apertura di queste pagine scritte quale introduzione alla mostra che oggi la Galleria Comunale d'Arte Contemporanea di Scafati dedica a Nicola Salvatore, incentrata sul lavoro degli ultimi due anni nel corso dei quali la scultura ha lasciato registrare una maggiore prevalenza applicativa, rispetto all'origine di un "fare pittorico" proprio della sua formazione. Salvatore nasce dunque pittore a metà degli anni Settanta: una sorta di imprimatur, non privo di peso e significato per quella che sarà 1'evoluzione, fino alla data odierna, del suo percorso immaginativo. Per quanto infatti quelle esperienze si collocassero nell'area di un dettato ludico-parte-cipativo (mi riferisco naturalmente al declinatissimo ciclo delle "balene") segnato da interferenze, soprattutto dopo le ambientazioni salernitane, di sapore concettuale, v'era già in esse una sorta di presa a distanza da questo assunto, evidente non tanto nel tema prescelto, l'ironico, nella sua inquietante invenzione, ed iterato ricorrere alla figura del mammifero proposto attraverso una dissezione anatomica che ne svuotava la forma fino a renderla simulacro di se stessa, quanto piuttosto nella propensione a non abbandonare del tutto la pittura anche se intesa nei modi di una riduzione grafica stesa, sul finire degli anni Settanta, attraverso un linearismo non privo di gestualità. Insomma è come se la fascinazione di quel clima che aveva trovato una sua affermazione, più propriamente sullo scadere del decennio precedente, mediante il rifiuto dell'oggetto-opera d'arte in virtù di un processo mentale che rinviava alla formazione dell'idea di queir oggetto, operando quindi sul piano di una riduzione linguistica, lo avesse, nella sua estensione, catturato, ma non nella misura tale da distoglierlo dall'idea del fare pittura. Una verifica del resto di questa sua inclinazione è registrabile nelle scelte operate dall'artista successivamente. Dopo un momento ancora di orientamento verso la sponda concettuale, non esente da evocazioni pop che lo porta, nei primi anni Ottanta, ad incrociare tautologicamente i sentieri della storia dell'arte appunto con i lavori dedicati a Matisse, Carrà, De Chirico, ove è ancora il gioco delle parvenze, tra immagine e sua negazione, a farsi avanti mediante una grafia veloce che volge anche in scrittura, facendo il verso, anche solo in termini di consapevolezza critica, latamente a Schifano, ecco dunque Salvatore, a metà del decennio, approdare propriamente alla pittura. L'assunzione del colore in veste di una forte dose espressiva, arricchita di una gestualità frenetica distesa anche tra vere e proprie sovrapposizioni di materia che palesano quanto nascondono, destrutturandole nella loro fisicità, quelle longilinee figure femminili, sagome ancora una volta di quel ciclo che Dorfles ebbe a definire "pittura della quotidianità e dell'estemporaneità", rappresenta dunque un ulteriore veicolo di comprensione rispetto al suo operare. Una ricerca che appare in qualche modo irrisolutamente divisa tra le ragioni di un fare tradizionale magicamente allusivo e la presentazione (non dunque rappresentazione) di quella porzione di mondo sul quale l'artista apre lo sguardo. Ne sono esempi prima le "resine", lavori connotati da una matrice fortemente oggettuale, come successivamente, tra la chiusura del decennio ed i primi anni Novanta, la serie delle "coperte" ove il recupero del piano come supporto inerente la problematica della pittura non tralascia di incontrare, l'oggetto già dato, carico di richiami esistenziali, con un' esplicita vocazione al prelievo nella sua concretezza. V'è al contempo il desiderio di porre in evidenza il valore raffigurativo della sua immagine evocata dal gioco delle ombre, quest'ultimo leitmotif di quei dipinti realizzati fra il 1992 e il '96. E' questo, credo, il momento più eloquente di questo iter. Un momento significativo per un grado di raggiunta maturità che porta l'artista a scoprire, mi sembra senza affanno, quel suo insito tendere a dialogare con l'immagine ricreata nei termini di una visione che opera tra superficie e volume, tra spazio della pittura e corpo della scultura. Significativo dunque propriamente per quelli che sono gli esiti odierni, ma anche forse per quel suo dichiararsi, uscire allo scoperto nel gioco delia visione immaginativa nel quale è soprattutto la pittura a sostenerlo. "Da Lascaux - ci ricorda ancora Merleau-Ponty - ai nostri giorni, in qualsiasi civiltà nasca, di qualsiasi credenza, di qualsiasi motivazione, di qualsiasi pensiero, di qualsiasi cerimonia si circondi, pura o impura, figurativa o no, la pittura anche quando sembra destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quello della visibilità".
** corpo dell'immagine
Che cosa sarebbero quegli oggetti, cucchiai, mestoli, arpioni, ganci, eliche, che Nicola Salvatore pone a corredo delle sue forme plastiche, ovviamente come parte integrante di esse, senza quel gioco di ombre che li manifesta nella loro essenza vitale? Probabilmente niente altro che oggetti. Il repertorio di una quotidianità che da sempre lo intriga, scoperta ed indagata alla luce di un forte potere immaginativo. Non credo pertanto che questo sguardo di ricognizione che lo porta ad isolare fisicamente l'oggetto, pur con quel tanto di simbolico che esso racchiude, sia, negli esiti di una scultura di matrice oggettuale, l'obiettivo inseguito dall'artista. V'è al fondo del suo procedere per sculture come Contrappeso, Gancio, Grande mestolo verticale tutte del 1998, o ancora 8 cucchiai, Mestolo realizzate nel corso di quest'anno unitamente alla recentissima Rinascimentale che oggi qui si presentano, una intenzionalità altra che appare ben evidente osservando le risoluzioni tecniche adottate per esse dall'artista. Da quando infatti nei primi anni Novanta, come naturale evoluzione del ciclo delle "coperte", Salvatore è passato ad introdurre nella sua ricerca la materia, il ferro prevalentemente, consacrando, con la nascita di quelle sculture, una propensione alla tridimensionalità, lo ha fatto seguendo un processo squisitamente personale che lo ha portato nel tempo a misurarsi ancora con la pittura. Voglio dire cioè che la necessità di aprire alla materia, di sondare le sue intime possibilità, affrontando in primis problemi di forma e di spazio, ha significato per l'artista trasferire in questa nuova dimensione il proprio bagaglio formativo e sufficientemente esperito di pittore. Scavando in quelle sottili lamiere di ferro la forma-sagoma (data come ombra) dell'oggetto (si veda in tal senso Piccolo mestolo, Campanaccio entrambe del 1992, Grattugia del 1993), l'artista mira ad indagare la consistenza dei volumi, delle forme ed il loro rapporto con la materia (sovente rame o ottone): è come se Salvatore avesse teso ad allargare il proprio campo d'azione utilizzando quindi la scultura per dare corpo e sensualità all'immagine rimarcando il valore che essa assume nello spazio. E' una riflessione che va alle radici del processo creativo della scultura, spinto alla dimostrazione dell'esistenza di qualcosa, di quella parte del mondo che vuole renderci visibile. Come a dire, quasi a testimoniare, che quelle cose, quei segni mondani sono veramente lì solo in virtù di una illusiva prospettiva che partecipa alla costruzione di uno spazio dove possano manifestarsi nella loro essenza. Si tratta di un procedimento in fondo che l'artista mutua dunque dall' esercizio della pittura, dalle possibilità che questa offre di rendere materiale l'immagine attraverso quei fenomeni connessi alla luce, alle ombre, al colore e le infinite tonalità e potenzialità riflettenti. Un esercizio che appare ben evidente in quella serie di carte che affiancano, meglio sarebbe dire precedono le sculture poc'anzi citate, così come in quei dipinti, neri e catramosi, realizzati a metà del decennio. Sono del resto proprio queste esperienze, quel suo scavare nel foglio bianco alla ricerca di suggerimenti prospettici, tracce figurali, che rimandano alla trascrizione di un pensiero, quanto quel suo muovere nello spessore della materia cromatica inseguendo la forma at traverso lo scarto di minimi passaggi di luce, a porsi alla base delle sculture realizzate negli ultimi due anni. Un lungo indice di composizioni plastiche entro le quali Salvatore ripete, come per le lamiere, il medesimo espediente, sottolineando quindi la presenza di una forma che vive sul corpo della scultura come soggetto ricreato dal suo sguardo interiore. Lo fa lasciando peraltro invariato quel repertorio di elementi, oggetti iterati come proiezioni di un proprio vissuto quotidiano. Dall'altra parte interviene, però, con un rin novato registro, sulla struttura complessiva della forma plastica che assume ora il linearismo svettante della verticalità come per la serie delle "colonne" (iniziata fin dal 1994) tra le quali si segnalano opere come Sega-S, Aratro, Catena tutte datate al 1997 o ancora Spirale del 1998, ora invece la chiusa rotondità del cerchio come si riscontra in Obelisco, Sole dentro sempre del 1997, Gancio, Arpione del 1998 o in Mestolo del 1999 e nella citata Rinascimentale, sculture queste ultime che ribaltano il concetto di verticalità in virtù di una marcata orizzontalità compositiva aderente al terreno. Sono opere che quasi sempre l'artista lascia precedere dal disegno, quelle carte alle quali, pur in una loro finitezza, affida il progetto, l'idea che, dal piano, troverà una sua "materica" concretezza nella scultura. Quest'ultimo un "luogo" prescelto dall'artista, ancora una volta per indagare il rapporto tra la forma e lo spazio. Nel confronto con la materia, che si apre, oltre il ferro, all' ingresso di nuovi materiali, il bronzo (si pensi appunto alla serie "bronzi" del 1999, proposti come multipli), la terracotta, il legno, Salvatore sembra ribadire il suo desiderio di comunicare, di dare un corpo all'immagine, di rendere "visibile" l'esperienza emotiva dello sguardo, ivi comprese quelle "figure" magiche che attinge dal bacino di una cultura dell'archetipo ben viva al fondo del suo immaginario. Sono, dunque, il gancio, la catena, il mestolo, l'arpione, segnali di quel suo vivere il presente, di quel misurarsi nello spazio che assume per lui il significato di durata temporale, di esistenza veritiera, e fragrante nella sua essenza, solo nella messa in atto della proiezione (l'ombra come gioco cromatico rintracciabile anche nelle tracce stesse del ferro arrugginito, delle venature del legno o della specchiante luminosità del bronzo). Insomma un singolare processo che sembra ricordare quanto sosteneva Picasso; vale a dire che «la scultura è il miglior complimento che si possa fare alla pittura».
Ada Patrizia Fiorillo