Nicola Salvatore, della scultura e dell'ombra, dell'oggetto e del nome
E' lungo una tradizione di recupero e presentazione degli oggetti d'uso quotidiano che si colloca tutto l'ultimo lavoro di Nicola Salvatore. Un artista che non ama distinguere più i generi (la pittura o la scultura) consapevole che le grandi rotture della recente storia dell'arte hanno praticato i generi attraversandoli e riattraversandoli nella loro essenza di materiali e temi.
Per Nicola Salvatore l'oggetto rappresentato, ingigantito, ripetuto, è portatore di nuovi valori della visione, di nuove istanze della significazione. Si tratta insomma di una vera e propria sintassi della sua rappresentazione. E da questo versante il reale e il suo doppio si inseguono. Il reale e la sua ombra anche. Del resto il suo lavoro è il risultato della semplice inversione della pratica del ready made duchampiano e della poetica dell'objet trouvé picassiana. Nicola Salvatore non acquista oggetti al supermercato per poi presentarli belli e fatti con la semplice nominazione e allo stesso tempo non frequenta discariche di ferro per riassemblare frammenti di macchine, piuttosto frequenta un quotidiano fatto di pratiche simboliche dove ogni piccola forma genera e sollecita nuovi modi per vecchi mondi di forme. A guardarli da vicino i suoi oggetti si trasformano in vere e proprie forme archetipe ingigantite da una forza coesiva e trasgressiva della loro funzione. Quei mestoli dal manico troppo lungo e pesante sembrano già ombre dell'oggetto originario, quelle seghe paiono pittosto linee zigzaganti un campo pittorico, quegli arpioni sono a rinviare al pieno e al vuoto di ogni forma, quei ganci sono prima di tutto la misura del loro peso nel pendere della gravità, così alle ragioni d'essere dell'oggetto rianimato l'artista aggiunge una valenza-eco rinviante ad una simbolica dell'oggetto stesso. L'ombra pure per sagome ripetute e tagliate, ritagliate ed ombrate, si assesta nel territorio della pittura e nel campo della scultura in termini inediti. Non sono le ombre di dechirichiana memoria, non sono il richiamo a un altro da sé surreale e fantastico, sono (con evidenza) la riaffermazione dell'essere dell'oggetto nel nostro sguardo quotidiano prima che nel nostro gesto. Ma per dire questo inedito luogo Nicola Salvatore si serve di vere e proprie tattiche di posizionamento cosi queste forme che segano, che pesano, che raccolgono, che grattano, che pettinano, che trivellano sono accolte da forme che definiscono il territorio della pittura e il volume della scultura. Non a caso si presentano insieme a colonne di tubi di ferro che trascinano verso una architettura archetipale o a sezioni rotonde di grandi tubi industriali che trascinano una condizione pittorica della forma. È a questa condizione di coniugazione strategica della forma e del volume che a mio avviso è rivolta la strategia dell'oggetto messa in atto dall'artista di Como. Ma Nicola Salvatore ama riferirsi alla tradizione mediterranea dell'oggetto, a quella solare ed aperta della gente del sud, da cui peraltro provengono e affondano le sue radici visive, ed ecco allora comparire titoli che adoperano forme dialettali, oggetti che fondano una alchimia di una cucina contadina, materie arcaiche della costruzione di forme che la cultura materiale ci ha da poco reintrodotto nelle pratiche del buon progetto.
Tutto il suo lavoro, dal raddoppio delle ombre, dalle sagome prima descritte e poi costruite, dalle materie che perseguono il ciclo della stabilità del lungo tempo, sino all'attraversamento di una cultura e di una sapienza ai confini del mitologico, si inscrive allora sotto il segno di una sacrale conoscenza di un mondo andato irrimediabilmente perduto. E qui inizia una sorta di racconto ciclopico del nostro stare insieme agli oggetti sul pianeta dell'arte. Era alla tradizione della presentazione dell'oggetto che mi riferivo prima, a quella inaugurata da Mercel Duchamp e continuata da Man Ray, reiterata dagli americani del New Dada, ripresa sotto forma di accumulo o taglio dai Nouveaux Realistes e specialmente da Arman, o rallegrata dalla morbidezza e dall'ingrandimento in Claes Oldenburg, caricata di un'aura simbolica in Joseph Beuys, continuata come un boomerang dalla recente frequentazione di artisti che ne hanno riproposto con minime varianti l'attualità. Niente di tutto questo in Nicola Salvatore, la formula adoperata è quella di una strutturazione scultorea e pittorica al medesimo tempo che rinvia alla sapienza primitiva delle cose alla saggezza umana del ìoro uso. Una sega serve a segare, un mestolo a raccogliere, un peso a pesare, un arpione ad arpionare, un pettine a pettinare. È di questa semplicità (ma non elementarità) delle cose che si rende interprete Nicola Salvatore.
E' alla realtà e non al suo doppio che si riferiscono le ombre, è alla verità della loro ragione d'essere che si riferiscono i suoi oggetti nelle cornici di una geometria tubolare che coniuga volentieri e senza conflitto l'industriale e l'artigianale, il primitivo e il moderno, le cose e il loro nome, il vuoto e il pieno, il doppio e il singolare, per raggiungere il luogo stesso di una monumentalità umana e ciclopica al medesimo tempo. Lungo queste stazioni Nicola Salvatore sta offrendo in realtà una indagine della scultura che è minima e massima allo stesso tempo, che sta collocando in questo campo tutta la storia degli oggetti e tutta la storia della scultura, tutti i nomi delle cose e tutte le loro funzioni, tutti i tempi di vita dell'inanimato e l'uso quotidiano del nostro sguardo. Da questa parte, da questa oostazione, la sua offerta non può che risultare singolare, inedita, preziosa e italiana. Nicola Salvatore guardando il mondo da questo punto di osservazione non svuota di significato il mondo (delle cose soprattutto), non lo spettacolarizza come dettano le ultime leggi dell'arte ma lo nomina del suo nome originario, dove il perverso senso della vista della contemporaneità e lo spazio istantaneo dell' immagine elettronica si sciolgono al sole interiore delle cose e del loro nome che come ombre continue inseguono il reale del vero territorio del tempo dell'uomo e delle sue cose che titanicamente lo hanno accompagnato nel lungo tragitto che ci consegna il presente.
Antonio D'Avossa
Per Nicola Salvatore l'oggetto rappresentato, ingigantito, ripetuto, è portatore di nuovi valori della visione, di nuove istanze della significazione. Si tratta insomma di una vera e propria sintassi della sua rappresentazione. E da questo versante il reale e il suo doppio si inseguono. Il reale e la sua ombra anche. Del resto il suo lavoro è il risultato della semplice inversione della pratica del ready made duchampiano e della poetica dell'objet trouvé picassiana. Nicola Salvatore non acquista oggetti al supermercato per poi presentarli belli e fatti con la semplice nominazione e allo stesso tempo non frequenta discariche di ferro per riassemblare frammenti di macchine, piuttosto frequenta un quotidiano fatto di pratiche simboliche dove ogni piccola forma genera e sollecita nuovi modi per vecchi mondi di forme. A guardarli da vicino i suoi oggetti si trasformano in vere e proprie forme archetipe ingigantite da una forza coesiva e trasgressiva della loro funzione. Quei mestoli dal manico troppo lungo e pesante sembrano già ombre dell'oggetto originario, quelle seghe paiono pittosto linee zigzaganti un campo pittorico, quegli arpioni sono a rinviare al pieno e al vuoto di ogni forma, quei ganci sono prima di tutto la misura del loro peso nel pendere della gravità, così alle ragioni d'essere dell'oggetto rianimato l'artista aggiunge una valenza-eco rinviante ad una simbolica dell'oggetto stesso. L'ombra pure per sagome ripetute e tagliate, ritagliate ed ombrate, si assesta nel territorio della pittura e nel campo della scultura in termini inediti. Non sono le ombre di dechirichiana memoria, non sono il richiamo a un altro da sé surreale e fantastico, sono (con evidenza) la riaffermazione dell'essere dell'oggetto nel nostro sguardo quotidiano prima che nel nostro gesto. Ma per dire questo inedito luogo Nicola Salvatore si serve di vere e proprie tattiche di posizionamento cosi queste forme che segano, che pesano, che raccolgono, che grattano, che pettinano, che trivellano sono accolte da forme che definiscono il territorio della pittura e il volume della scultura. Non a caso si presentano insieme a colonne di tubi di ferro che trascinano verso una architettura archetipale o a sezioni rotonde di grandi tubi industriali che trascinano una condizione pittorica della forma. È a questa condizione di coniugazione strategica della forma e del volume che a mio avviso è rivolta la strategia dell'oggetto messa in atto dall'artista di Como. Ma Nicola Salvatore ama riferirsi alla tradizione mediterranea dell'oggetto, a quella solare ed aperta della gente del sud, da cui peraltro provengono e affondano le sue radici visive, ed ecco allora comparire titoli che adoperano forme dialettali, oggetti che fondano una alchimia di una cucina contadina, materie arcaiche della costruzione di forme che la cultura materiale ci ha da poco reintrodotto nelle pratiche del buon progetto.
Tutto il suo lavoro, dal raddoppio delle ombre, dalle sagome prima descritte e poi costruite, dalle materie che perseguono il ciclo della stabilità del lungo tempo, sino all'attraversamento di una cultura e di una sapienza ai confini del mitologico, si inscrive allora sotto il segno di una sacrale conoscenza di un mondo andato irrimediabilmente perduto. E qui inizia una sorta di racconto ciclopico del nostro stare insieme agli oggetti sul pianeta dell'arte. Era alla tradizione della presentazione dell'oggetto che mi riferivo prima, a quella inaugurata da Mercel Duchamp e continuata da Man Ray, reiterata dagli americani del New Dada, ripresa sotto forma di accumulo o taglio dai Nouveaux Realistes e specialmente da Arman, o rallegrata dalla morbidezza e dall'ingrandimento in Claes Oldenburg, caricata di un'aura simbolica in Joseph Beuys, continuata come un boomerang dalla recente frequentazione di artisti che ne hanno riproposto con minime varianti l'attualità. Niente di tutto questo in Nicola Salvatore, la formula adoperata è quella di una strutturazione scultorea e pittorica al medesimo tempo che rinvia alla sapienza primitiva delle cose alla saggezza umana del ìoro uso. Una sega serve a segare, un mestolo a raccogliere, un peso a pesare, un arpione ad arpionare, un pettine a pettinare. È di questa semplicità (ma non elementarità) delle cose che si rende interprete Nicola Salvatore.
E' alla realtà e non al suo doppio che si riferiscono le ombre, è alla verità della loro ragione d'essere che si riferiscono i suoi oggetti nelle cornici di una geometria tubolare che coniuga volentieri e senza conflitto l'industriale e l'artigianale, il primitivo e il moderno, le cose e il loro nome, il vuoto e il pieno, il doppio e il singolare, per raggiungere il luogo stesso di una monumentalità umana e ciclopica al medesimo tempo. Lungo queste stazioni Nicola Salvatore sta offrendo in realtà una indagine della scultura che è minima e massima allo stesso tempo, che sta collocando in questo campo tutta la storia degli oggetti e tutta la storia della scultura, tutti i nomi delle cose e tutte le loro funzioni, tutti i tempi di vita dell'inanimato e l'uso quotidiano del nostro sguardo. Da questa parte, da questa oostazione, la sua offerta non può che risultare singolare, inedita, preziosa e italiana. Nicola Salvatore guardando il mondo da questo punto di osservazione non svuota di significato il mondo (delle cose soprattutto), non lo spettacolarizza come dettano le ultime leggi dell'arte ma lo nomina del suo nome originario, dove il perverso senso della vista della contemporaneità e lo spazio istantaneo dell' immagine elettronica si sciolgono al sole interiore delle cose e del loro nome che come ombre continue inseguono il reale del vero territorio del tempo dell'uomo e delle sue cose che titanicamente lo hanno accompagnato nel lungo tragitto che ci consegna il presente.
Antonio D'Avossa