E' tornato Ishmael - Salvatore
In un tempo non molto remoto, negli anni Settanta del secolo Ventesimo, il giovane Ishmael-Salvatore narrava sulle rive del Tirreno meridionale, nell'area prospiciente la Campania, della sua Moby-Dick. Che nulla, in verità, aveva a che spartire con l'antenata melvilliana. Era anch'essa possente, certo, e di spaventevole aspetto, però non sospettabile delle efferatezze dell'imprendibile cetaceo oceanico inseguito dalla "Pequod". Il quale, è vero, agiva, per così dire, per legittima difesa - a estremi mali, estremi rimedi -, ma con atrocità da Grand-Guignol, giustificate da un vendicativo capitan Achab, di cui nei racconti di Ishmael-Salvatore non vi è traccia. Con tutte le conseguenze del caso. Ecco la balena di un quadro del 1972 - il nostro raccontava per immagini, con pennelli, penne, matite, pastelli e altri strumenti da pittura e disegno - che digrigna i denti e inalbera minacciosa la coda, ma pare dare prova dei suoi attributi, piuttosto che attivarli per la lotta. Oppure le balene di Ishmael-Salvatore si accampavano su delle tavole-lavagna quadrettate, come exempla per una lezione didattica di scienze naturali, con indicazioni numeriche di misure e scritte-didascalie di evidente funzione appunto di didattica. E si offrivano in genere sotto l'aspetto di fossile, tutto ossa e denti, con un profilo della forma del corpo tracciato a posteriori per meglio indicare la localizzazione dei singoli organi. E, si sa, i fossili, seppur di balena, non possono godere della terribilità degli esemplari in carne e ossa, vivi preferibilmente. Tuttavia, chissà per quali ragioni private, ma anche per motivazioni comuni - ai fanciulli, almeno, ai primitivi, e agli artisti - l'enorme cetaceo, fatto più grande dall'immaginazione e da memorie ancestrali, continua a suscitare sensazioni e fantasie in qualunque stato si trovi. Anche, addirittura, se privo non solo di carni, ma persino di qualsiasi resto tangibile. Anche se affidato solo all'invenzione di scrittori, illustratori, o di zie e nonne. "Non si dimentichi" - avverte Gillo Dorfles, uno dei primi postillatori dei "miraggi" dipinti del giovane campano, nel gennaio 1980, quando le narrazioni intorno alle balene di Ishmael-Salvatore stavano approdando ad un fisiologico esaurimento -"quanto Gombrich racconta a proposito del disegno di una balena approdata sulla costa anconetana nel 1690 e ritratta da un incisore dell'epoca niente meno che provvista di grandissime orecchie quasi elefantine: una balena, dunque, per 'sentito dire', il cui valore simbolico supera di gran lunga la fedeltà della raffigurazione, anzi ne fa una sorta di feticcio soprannaturale". Come avverrà a Melville, che dalla bianca balena trarrà occasione per simbologie numerose e diffuse, per metafore dense, in relazione alla sua concezione interrogativa del significato della vita, del mondo, del bene e del male, lontanante e sfuggente in un'incomprensibilità trascendente i limiti della mente umana. E come era stato registrato nella Bibbia negli accadimenti di Giona nel ventre del "grosso pesce" in cui il profeta era rimasto chiuso per tre giorni e tre notti, dove, per citare un biblista come Gianfranco Ravasi, il mare e il mostro marino sono simboli della morte e del nulla, da cui Giona peraltro si Libera, prefigurando la resurrezione di Cristo. Con un arricchimento di senso che - si licet, per sottolineare la fortuna, ad ogni Livello, della balena come simbolo pregnante - ritroviamo in Geppetto e Pinocchio inghiottiti dall'enorme (aveva addirittura fatto un boccone di una nave intera) pesce-cane (in realtà una quasi balena, se non proprio una balena) nel capolavoro di Collodi. Non erano però di siffatta natura le raffigurazioni di Salvatore, del tutto prive di quello spessore mitico, se non, forse, sul piano di immaginario favolistico, "in chiave di ironia e di magicità popolaresca, da baraccone", come ebbe ad osservare nel 1975, in
medias res quindi, Enrico Crispolti, altro tempestivo recensore di queste opere del pittore di Casalbore. Che risentivano piuttosto - l'ho riportato più volte in altre occasioni - di quel clima concettuale in cui Nicola Salvatore (classe 1951) s'era formato. Fuori, tuttavia, del rigoristico autoreferenzialismo di un'arte che ha come suo solo oggetto la riflessione sull'arte, del resto quasi per nulla accettato in Italia, e in ogni caso, negli avanzati anni Settanta, ovunque in crisi di identità. E invece con una non iconoclasta ricerca "oltre la pittura" più tradizionale e quindi con l'investigazione di tecniche, strumenti, ma anche funzioni, nuovi, indubbiamente innervati da un'inclinazione mentale, sperimentalmente diramata. E sempre, nonostante tutto, incapace di rinunciare alla narrazione, che non vuol dire rappresentazione, ovviamente. Le Balene di quella trascorsa stagione, Nicola le ripropone ora accostandole ad altre, a due o tre dimensioni, realizzate recentissimamente. Ishmael-Salvatore è quindi tornato, dopo due lunghi decenni. Ma, inevitabilmente, in modi diversi, o almeno in parte diversi, da quelli che improntarono i frutti degli anni Settanta. Per questo mi si consenta di non condividere appieno il titolo di questa mostra, né, soprattutto, quanto a livello di pensiero e di metodo, esso sottintende. "Antilogica" come azione di sabotaggio dell'idea consueta di "mostra antologica", nel segno del rifiuto di "quel concetto di progressione cronologica e lineare su cui essa si fonda", come si legge nel comunicato stampa, presuppone - lo si afferma esplicitamente nel medesimo testo -1' "illustrare l'itinerario artistico svolto dall'artista negli ultimi decenni attraverso una prospettiva circolare che si ispira a una sorta di 'eterno ritorno', cioè a un mito proprio di quella civiltà mediterranea su cui si impernia il recente lavoro di Salvatore". Non avrei invece avuto riserve se si fosse scritto di prospettiva a spirale. Che vuol dire tutt'altra cosa, senza negare la continuità che indubitabilmente lega tutto quanto Salvatore ha fatto nel tempo, e in specie le Balene di ieri e di oggi. Un taglio "circolare" impedisce qualsiasi diacronia, se non appunto entro una stretto "eterno ritorno", implicante di fatto l'immobilità: che non è dell'uomo e del suo fare, e quindi dell'arte. La spirale presuppone invece uno sviluppo, che torna sì sugli stessi assi, ma non in modo ripetitivo, sempre uguale. Per questo la spirale è simbolo del movimento della vita e, tout court, della vita. Le Balene che Salvatore va ora costruendo in ferro e alluminio o dipingendo con tecnica mista su tavola non possono essere allineate senza distinguo alcuno alle Balene degli anni Settanta. Anche se fossero identiche, come invece non sono. In ogni caso, tra le due serie di lavori non c'è il vuoto, o un tempo senza tempo. Capisco bene che l'artista voglia rifiutare l'ideologia dell'avanguardia, con l'implicito preconcetto di progresso, che con l'arte nulla ha a che fare, come ben sanno proprio gli storici dell'arte, usciti dalle analisi, anche teoriche, della scuola della "Pura Visibilità", tra fine Ottocento e primo Novecento. Ma, seppur fuori di tale equivoco, derivato dagli svolgimenti dell'arte del secolo scorso, come non riconoscere che non è possibile che le molte cose fatte da Nicola negli anni Ottanta e Novanta, i molti passaggi attraversati in un cammino coerente ma ricco di novità, non si riflettano in qualche misura sulla produzione odierna?
Basta guardare con attenzione quanto la mostra ci presenta, rendendo più agevole, con un confronto diretto, il giudizio. E si avvertirà, innanzi tutto, il ruolo primario assunto dall'oggettualità, e più direttamente dell'oggetto. L'applicarsi sempre più preminente dell'artista alla scultura maturato nel decennio precedente sottende proprio questo. Con conseguenze rilevanti nel rapporto con lo spazio esterno e con le preesistenze ambientali, che danno all'enorme Balena in metallo - lunga più di nove metri, alta nei punti maggiori quasi quattro e profonda più di uno -esposta in questa occasione una consistenza plastico-volumetrica inedita, anche per la trasparenza e la leggerezza di impatto percettivo derivate dalle aperture, dominanti, e dai linearismi cromaticamente differenziati del profilo e dello scheletro dell'animale. Che incidono sulla stessa dinamica plastica e spaziale interna alla scultura. Quindi con risultati non sovrapponibili a quelli dei venti-trent'anni fa, dovuti a presupposti e obiettivi anch'essi differenti, pur nella persistenza di un accento che dal concettuale deriva. Altro motivo debitore delle esperienze svolte nell'intervallo tra le Balene iniziali e le ultime è quello dell'ombra. Che ritroviamo sì, già, va riconosciuto, nel Cetaceo del 1972 sopra citato, nel quale è anche innestato, nella parte alta della superficie, un vero rubinetto (vera anticipazione dei recuperi oggettuali più tardi, nonostante l'inserimento in una rarefazione analitica coniugata con accenti "pop", tipica di quella fase di Salvatore), che appunto inevitabilmente, comunque sia illuminato, dà origine ad una o più ombre. Ma si tratta di qualcosa di insieme tautologico e "naturale", mentre ben più intrigante e complesso è il gioco delle ombre fissate in seguito sulla superficie dei dipinti (e, prima, tra anni Ottanta e Novanta, delle "Coperte", composizioni miste, bidimensionali e tridimensionali realizzate su coperte di lana) o ricavate nelle sculture attraverso squarci, fori e dislivelli, fino a veri Teatri nell'ombra, come recitava il titolo, e l'introduzione in catalogo di Flaminio Guardoni, di una mostra, nel 1993, nella Pinacoteca Civica di Como. È di qui che discendono le ombre delle Balene delle sculture e di quelle medesime delle pitture, dove il profilo originario dell'animale subisce una metamorfosi verso appunto qualcosa che non è più solo un contorno schematico e convenzionale, ma una realtà con un suo corpo, seppur imprendibile tattilmente (ma non otticamente).
PS. Per i distratti, o per quanti sono immersi nell'orizzontalità dell'ipertesto elettronico o di una contemporaneità attestata solo su quanto avviene qui e ora, ricordo che l'Ishmael abusivamente utilizzato in queste pagine è il narratore-testimone di Moby-Dick di Herman Melville, del 1851.
Luciano Caramel
Basta guardare con attenzione quanto la mostra ci presenta, rendendo più agevole, con un confronto diretto, il giudizio. E si avvertirà, innanzi tutto, il ruolo primario assunto dall'oggettualità, e più direttamente dell'oggetto. L'applicarsi sempre più preminente dell'artista alla scultura maturato nel decennio precedente sottende proprio questo. Con conseguenze rilevanti nel rapporto con lo spazio esterno e con le preesistenze ambientali, che danno all'enorme Balena in metallo - lunga più di nove metri, alta nei punti maggiori quasi quattro e profonda più di uno -esposta in questa occasione una consistenza plastico-volumetrica inedita, anche per la trasparenza e la leggerezza di impatto percettivo derivate dalle aperture, dominanti, e dai linearismi cromaticamente differenziati del profilo e dello scheletro dell'animale. Che incidono sulla stessa dinamica plastica e spaziale interna alla scultura. Quindi con risultati non sovrapponibili a quelli dei venti-trent'anni fa, dovuti a presupposti e obiettivi anch'essi differenti, pur nella persistenza di un accento che dal concettuale deriva. Altro motivo debitore delle esperienze svolte nell'intervallo tra le Balene iniziali e le ultime è quello dell'ombra. Che ritroviamo sì, già, va riconosciuto, nel Cetaceo del 1972 sopra citato, nel quale è anche innestato, nella parte alta della superficie, un vero rubinetto (vera anticipazione dei recuperi oggettuali più tardi, nonostante l'inserimento in una rarefazione analitica coniugata con accenti "pop", tipica di quella fase di Salvatore), che appunto inevitabilmente, comunque sia illuminato, dà origine ad una o più ombre. Ma si tratta di qualcosa di insieme tautologico e "naturale", mentre ben più intrigante e complesso è il gioco delle ombre fissate in seguito sulla superficie dei dipinti (e, prima, tra anni Ottanta e Novanta, delle "Coperte", composizioni miste, bidimensionali e tridimensionali realizzate su coperte di lana) o ricavate nelle sculture attraverso squarci, fori e dislivelli, fino a veri Teatri nell'ombra, come recitava il titolo, e l'introduzione in catalogo di Flaminio Guardoni, di una mostra, nel 1993, nella Pinacoteca Civica di Como. È di qui che discendono le ombre delle Balene delle sculture e di quelle medesime delle pitture, dove il profilo originario dell'animale subisce una metamorfosi verso appunto qualcosa che non è più solo un contorno schematico e convenzionale, ma una realtà con un suo corpo, seppur imprendibile tattilmente (ma non otticamente).
PS. Per i distratti, o per quanti sono immersi nell'orizzontalità dell'ipertesto elettronico o di una contemporaneità attestata solo su quanto avviene qui e ora, ricordo che l'Ishmael abusivamente utilizzato in queste pagine è il narratore-testimone di Moby-Dick di Herman Melville, del 1851.
Luciano Caramel