Impronte lasciate dalla pittura
Filippo Baldìnucci sul finire del secolo XVII scriveva che l'impronta suggerisce un'immagine "impressa in qualsivoglia cosa".
Il richiamo è all'idea avanzata dal processo della scultura, ossia di ottenere una forma, o calco, entro il quale far colare il metallo fuso o, semplicemente, il gesso.
L'impronta potrebbe essere il calco, il corpo vuoto della forma, per paradosso il segno o disegno nel quale vanno ad abitare le pulsioni emotive del colore. Il calco di un'idea, di un'immagine, cioè di una qualcosa che si muove senza corpo nella mente, nelle stanze del pensiero, dei ricordi, della memoria. Impronta intesa anche come presenza di un tempo che verrà, come segno-corpo di un nuovo arrivo, dunque dell'incontro. È questo l'ideale percorso narrativo che tiene insieme le opere realizzate da Nicola Salvatore negli ultimi due anni. Esse hanno come leitmotiv, il viaggio o, meglio, il suo silenzioso peregrinare, con l'animo del viandante, sulle tracce lasciate dall'impronta, ovvero dalla memoria nei luoghi dell' immaginazione. Sul fondo di questi dipinti vi sono le terre, le sabbie dei luoghi ove lo sguardo ha soggiornato: dalla spiaggia di Salerno lasciata nel 1975, agli orli di pietra che incorniciano il lago di Como, alle terre della Spagna, della Francia, poi la "seducente" sabbia dei fiumi dell'India, la Germania, l'Italia per far ritorno, infine, al punto dal quale era partito trenta anni fa. Il Mediterraneo con le sue spiagge di sabbia e ciottoli, con le gole delle scogliere incurvate sui luoghi del mito, con le storie narrate da ragazzo, con le forme di quei racconti orecchiati dai grandi.
V'è nell'artista, soprattutto, il desiderio di andare di volta in volta oltre, varcare la soglia del ricordo, così come fanno le impronte dei suoi cetacei: grandi balene, un tempo incollate alle pareti delle città, ora sagome fatte affiorare come tracce di un intimo viaggio, ora figure che intessono i tempi di una performance. Sono i resti di un grande cetaceo ricostruito dagli occhi della pittura, simile, nel calco sedimentatosi milioni d'anni fa, allo scheletro di quella balaenottera acutorostrata cuverii, affiorato, nel 1993, in una frazione a Sud di Asti. La balena avanzata, dunque, come reperto di un'iconografìa che si perde nel buio dei millenni e, al tempo stesso, traccia, impronta e luogo dell'immaginario contemporaneo, luminosa figura che si fa largo nei bagliori, esibita da Salvatore quale novità di una creatività, ma anche come ulteriore mostro, di quelli che abitano le tenebre della psiche che il gesto, il colore, la forma fanno affiorare alla verità dello sguardo per liberarci dal loro terrore per sempre. Una figura avvolta nei bagliori del rinnovato rito della pittura, dunque, del suo celebrare il valore dell'immagine, posto come ulteriore avance alla realtà, cercando di definire nuove forme, anzi delle pre-forme, cioè proprie di corpi che vivono e si agitano nell'immaginario, nella ribollente preistoria dell'Io collettivo. In questi dipinti o, meglio ancora, in questi complessi plastici, avanzati a metà fra bassorilievo, pittura, collage, ove, più di tutto, gioca il desiderio di narrare il fascino del viaggio, l'andare verso il territorio misterioso ed ignoto dell'Io, per incontrare un nuovo bagliore, il calco di quella creatura affiorata improvvisamente dagli abissi della mente.
La balena, traccia, forma ed immagine, soprattutto affascinante corpo di un'era lontana che da qualche anno è tornata, nella fantasia dell'artista, allo specchio dei ricordi. La balena ha lasciato l'impronta sulla sensibile superficie della pittura, resa sensuale pellicola dai pigmenti orientali, dalla preziosità di colori che Salvatore ha attinto alla tradizione indiana.
L'impronta diviene attraversamento dell'anima, ombra leggera che si insinua nelle pieghe, nelle pause amare della quotidianità. Ombra perché anch'essa figura, sostanza lontana ma viva, imprendibile compagna del corpo e della luce.
In un passo dell'Elogio dell'ombra, una rima scritta da Borges nel 1969, si legge: «Gli amici miei non hanno volto,/ le donne son quello che furono in anni lontani,/ i cantori sono gli stessi ed altri,/ non hanno lettere i fogli dei libri./ Dovrebbe impaurirmi tutto questo/ e invece è una dolcezza, un ritornare».
Massimo Bignardi
Il richiamo è all'idea avanzata dal processo della scultura, ossia di ottenere una forma, o calco, entro il quale far colare il metallo fuso o, semplicemente, il gesso.
L'impronta potrebbe essere il calco, il corpo vuoto della forma, per paradosso il segno o disegno nel quale vanno ad abitare le pulsioni emotive del colore. Il calco di un'idea, di un'immagine, cioè di una qualcosa che si muove senza corpo nella mente, nelle stanze del pensiero, dei ricordi, della memoria. Impronta intesa anche come presenza di un tempo che verrà, come segno-corpo di un nuovo arrivo, dunque dell'incontro. È questo l'ideale percorso narrativo che tiene insieme le opere realizzate da Nicola Salvatore negli ultimi due anni. Esse hanno come leitmotiv, il viaggio o, meglio, il suo silenzioso peregrinare, con l'animo del viandante, sulle tracce lasciate dall'impronta, ovvero dalla memoria nei luoghi dell' immaginazione. Sul fondo di questi dipinti vi sono le terre, le sabbie dei luoghi ove lo sguardo ha soggiornato: dalla spiaggia di Salerno lasciata nel 1975, agli orli di pietra che incorniciano il lago di Como, alle terre della Spagna, della Francia, poi la "seducente" sabbia dei fiumi dell'India, la Germania, l'Italia per far ritorno, infine, al punto dal quale era partito trenta anni fa. Il Mediterraneo con le sue spiagge di sabbia e ciottoli, con le gole delle scogliere incurvate sui luoghi del mito, con le storie narrate da ragazzo, con le forme di quei racconti orecchiati dai grandi.
V'è nell'artista, soprattutto, il desiderio di andare di volta in volta oltre, varcare la soglia del ricordo, così come fanno le impronte dei suoi cetacei: grandi balene, un tempo incollate alle pareti delle città, ora sagome fatte affiorare come tracce di un intimo viaggio, ora figure che intessono i tempi di una performance. Sono i resti di un grande cetaceo ricostruito dagli occhi della pittura, simile, nel calco sedimentatosi milioni d'anni fa, allo scheletro di quella balaenottera acutorostrata cuverii, affiorato, nel 1993, in una frazione a Sud di Asti. La balena avanzata, dunque, come reperto di un'iconografìa che si perde nel buio dei millenni e, al tempo stesso, traccia, impronta e luogo dell'immaginario contemporaneo, luminosa figura che si fa largo nei bagliori, esibita da Salvatore quale novità di una creatività, ma anche come ulteriore mostro, di quelli che abitano le tenebre della psiche che il gesto, il colore, la forma fanno affiorare alla verità dello sguardo per liberarci dal loro terrore per sempre. Una figura avvolta nei bagliori del rinnovato rito della pittura, dunque, del suo celebrare il valore dell'immagine, posto come ulteriore avance alla realtà, cercando di definire nuove forme, anzi delle pre-forme, cioè proprie di corpi che vivono e si agitano nell'immaginario, nella ribollente preistoria dell'Io collettivo. In questi dipinti o, meglio ancora, in questi complessi plastici, avanzati a metà fra bassorilievo, pittura, collage, ove, più di tutto, gioca il desiderio di narrare il fascino del viaggio, l'andare verso il territorio misterioso ed ignoto dell'Io, per incontrare un nuovo bagliore, il calco di quella creatura affiorata improvvisamente dagli abissi della mente.
La balena, traccia, forma ed immagine, soprattutto affascinante corpo di un'era lontana che da qualche anno è tornata, nella fantasia dell'artista, allo specchio dei ricordi. La balena ha lasciato l'impronta sulla sensibile superficie della pittura, resa sensuale pellicola dai pigmenti orientali, dalla preziosità di colori che Salvatore ha attinto alla tradizione indiana.
L'impronta diviene attraversamento dell'anima, ombra leggera che si insinua nelle pieghe, nelle pause amare della quotidianità. Ombra perché anch'essa figura, sostanza lontana ma viva, imprendibile compagna del corpo e della luce.
In un passo dell'Elogio dell'ombra, una rima scritta da Borges nel 1969, si legge: «Gli amici miei non hanno volto,/ le donne son quello che furono in anni lontani,/ i cantori sono gli stessi ed altri,/ non hanno lettere i fogli dei libri./ Dovrebbe impaurirmi tutto questo/ e invece è una dolcezza, un ritornare».
Massimo Bignardi