La balena è tornata in superficie
L'insistere sul "fuori scala" è una delle costanti che da sempre caratterizza l'esperienza creativa di Nicola Salvatore. Un fuori scala, quasi un tendere al "ciclopico", così come prontamente l'ha definito Marco Meneguzzo, riferendosi alle opere realizzate da Salvatore negli anni Novanta, soprattutto a partire dal 1997, che oggi fa i conti anche con la memoria, con le immagini in essa sedimentatesi. Sono le figure degli attrezzi del quotidiano antropologico della sua terra, l'aratro, la vanga, vale a dire gli utensili agricoli, oppure gli oggetti delle ritualità laiche come il mestolo, il grattacacio, il peso della stadera e poi ancora altri, a scavare nei sensibili "territori" dei ricordi, dando a ciascuno di essi smisurate proporzioni, ossia capaci
di occupare il vuoto. E si sa bene che il vuoto non ha dimensioni, anzi nella mente, negli strati della psiche, azzera ogni relazione di spazio e di tempo.
In questo spazio naviga oggi la grande balena realizzata dall'artista in questa estate; vera come la realtà o, se si vuole, ciclopica come il ricordo. È un'immagine che torna dopo anni di "appartata" navigazione, quasi sotterranea, nelle profondità di quel mare, sempre mosso, che è l'oceano delle immagini; un oceano che con sempre maggiore frequenza registra migrazioni (che non hanno nulla del mondano nomadismo), di segni in viaggio nei territori dell'immaginazione, pronti a sollecitare (orientare) nuovi attraversamenti.
La balena, lo raccontano le fiabe o le storie degli uomini di mare, è la montagna che affiora dagli abissi, quella immensa massa scura contro la quale il capitano Achab combatté la sua battaglia personale con l'inseparabile Moby Dick, la balena bianca, ovvero il desiderio dell'uomo, alla soglia della modernità (la stessa dalla quale guardava Melville), di imporre il suo progetto alla natura ma anche «l'umanità cresciuta - scriveva Sandra Petrignani - nel mito del progresso». La balena è l'oggetto dell'illusione, metafora della «sconfitta della politica, del fare». Questo potrebbe essere una delle tante chiavi di lettura dell'invasione, anch'essa monumentale perché si dilatava nell'intera città, di quei manifesti bianchi con su la sagoma scheletrica della balena che Salvatore affisse per le strade salernitane nel lontano 1975. Questo accadeva in anni di intensa progettualità partecipativa, posta sotto il segno dell'Arte nel Sociale, in pratica quella stagione dell'arte italiana, e non solo, nella quale sembrava ricomporsi la frattura che, quasi da un secolo, teneva separati gli artisti (giustamente ridefiniti operatori estetici) dalla quotidianità sociale. Gli interventi erano mirati sia a sollecitare una nuova attività creativa ricomposta come atto collettivo, attenta, cioè, a prendere coscienza della domanda sociale, sia come detonatore di una strategia mirata a scardinare le piramidali strutture istituzionali e far posto ad una partecipazione democratica. A quel tempo, accelerato nel ritmo dall'ondata di rinnovamento del Sessantotto, la balena anche se sintetizzata nella sua scheletrica sagoma, assumeva il tono minaccioso e al tempo stesso ironico, immaginifico. Minaccioso perché l'intervento era monumentale, oppressivo, invadente, occupava idealmente tutta Salerno, sua città di adozione, senza concedere alcuna tregua allo sguardo. L'ironia era, come penso lo sia ancora oggi nei lavori di Salvatore, il motivo nascosto del suo racconto, la velata felicità, ossia la leggerezza (l'avrebbe definita Calvino) che supera la tristezza e diviene malinconia o che fa lievitare il riso in humor. È una leggerezza che consentiva, ad un giovanissimo artista da poco uscito dagli "atelier" dell'Accademia, di "accantonare" gli strumenti tradizionali del fare e spingere la sua azione nella pratica di un progetto politico. La balena era l'illusione e, al tempo stesso, la misura del coraggio di sentirsi moderno, assolutamente moderno accettando il perentorio monito di Rimbaud. Il deflusso, le storie recenti lo raccontano bene, corrose l' "umanesimo" del progetto nel giro di pochi anni: già all'alba del decennio ottanta un pilotato "ritorno all'ordine" esplicava chiaramente la fine di ogni illusione. Erano rimasti negli angoli della vecchia Salerno alcuni manifesti, leggermente sbiancati dal tempo: la forma graffiata della balena sollecitava la memoria, fino a rievocare quel "grande mammifero" che nell'autunno del 1938 i salernitani trovarono, dopo una mareggiata, sulla spiaggia di Santa Teresa. Una balena distesa sulla sabbia, oramai sconfitta dai venti di guerra che già spiravano nei cieli italiani. In fondo anche la balena, inseparabile compagna di Salvatore per gran parte degli anni Settanta sapeva di essere stata sconfitta: però non si è lasciata morire sulla spiaggia, lì ove le maree depositano i segni, bensì prese il largo, abbandonò le acque native inabissandosi. Eccola oggi trionfare nel cielo di Como, ritagliata nella sagoma e nello scheletro a raccontare il suo nascosto viaggio: è una balena grande che si dilata, ancora immaginariamente, sull'intera città. Moby Dick torna a tuonare nella mente dell'artista, nella sua monomania, proprio come Achab: è la preda e al tempo stesso il cacciatore, dunque l'immagine della sconfitta, misura cioè dell'impossibilità di poter dare alla società una prospettiva più accettabile.
È incredibile come l'idea della "monumentale" balena, pensata come una grande creatura dell'immaginazione, trovi negli eventi di questi giorni una sua "reale" attualità. L'artista, scriveva Rimbaud, è un veggente, il suo occhio interiore guarda al di là del tempo che lo circonda. Questa balena arenatasi, forse, sulle rive del lago ci dovrebbe far riflettere sull'inquietudine che l'ha spinta a riaffiorare dagli abissi marini, dalle profondità della memoria. Essa riflette certamente l'incertezza (cifra anche dell'incapacità) di rinnovare il proprio statuto, di dichiarare la paura che si cela nell'insoddisfazione sociopolitica che governa la nostra esistenza. È, soprattutto, il nascosto io che guarda la sua "carcassa d'artista", stretta nella consuetudine della globalizzante partecipazione mondana, nelle sclerotiche ritualità.
Nicola Salvatore, è forse questa la sottesa immagine, ha voglia di tornare nell'impeto del "confronto", nella precarietà dell'utopia, nel tempo dilatato dell'attesa che è quello del suo nascosto Mediterraneo.
Massimo Bignardi
In questo spazio naviga oggi la grande balena realizzata dall'artista in questa estate; vera come la realtà o, se si vuole, ciclopica come il ricordo. È un'immagine che torna dopo anni di "appartata" navigazione, quasi sotterranea, nelle profondità di quel mare, sempre mosso, che è l'oceano delle immagini; un oceano che con sempre maggiore frequenza registra migrazioni (che non hanno nulla del mondano nomadismo), di segni in viaggio nei territori dell'immaginazione, pronti a sollecitare (orientare) nuovi attraversamenti.
La balena, lo raccontano le fiabe o le storie degli uomini di mare, è la montagna che affiora dagli abissi, quella immensa massa scura contro la quale il capitano Achab combatté la sua battaglia personale con l'inseparabile Moby Dick, la balena bianca, ovvero il desiderio dell'uomo, alla soglia della modernità (la stessa dalla quale guardava Melville), di imporre il suo progetto alla natura ma anche «l'umanità cresciuta - scriveva Sandra Petrignani - nel mito del progresso». La balena è l'oggetto dell'illusione, metafora della «sconfitta della politica, del fare». Questo potrebbe essere una delle tante chiavi di lettura dell'invasione, anch'essa monumentale perché si dilatava nell'intera città, di quei manifesti bianchi con su la sagoma scheletrica della balena che Salvatore affisse per le strade salernitane nel lontano 1975. Questo accadeva in anni di intensa progettualità partecipativa, posta sotto il segno dell'Arte nel Sociale, in pratica quella stagione dell'arte italiana, e non solo, nella quale sembrava ricomporsi la frattura che, quasi da un secolo, teneva separati gli artisti (giustamente ridefiniti operatori estetici) dalla quotidianità sociale. Gli interventi erano mirati sia a sollecitare una nuova attività creativa ricomposta come atto collettivo, attenta, cioè, a prendere coscienza della domanda sociale, sia come detonatore di una strategia mirata a scardinare le piramidali strutture istituzionali e far posto ad una partecipazione democratica. A quel tempo, accelerato nel ritmo dall'ondata di rinnovamento del Sessantotto, la balena anche se sintetizzata nella sua scheletrica sagoma, assumeva il tono minaccioso e al tempo stesso ironico, immaginifico. Minaccioso perché l'intervento era monumentale, oppressivo, invadente, occupava idealmente tutta Salerno, sua città di adozione, senza concedere alcuna tregua allo sguardo. L'ironia era, come penso lo sia ancora oggi nei lavori di Salvatore, il motivo nascosto del suo racconto, la velata felicità, ossia la leggerezza (l'avrebbe definita Calvino) che supera la tristezza e diviene malinconia o che fa lievitare il riso in humor. È una leggerezza che consentiva, ad un giovanissimo artista da poco uscito dagli "atelier" dell'Accademia, di "accantonare" gli strumenti tradizionali del fare e spingere la sua azione nella pratica di un progetto politico. La balena era l'illusione e, al tempo stesso, la misura del coraggio di sentirsi moderno, assolutamente moderno accettando il perentorio monito di Rimbaud. Il deflusso, le storie recenti lo raccontano bene, corrose l' "umanesimo" del progetto nel giro di pochi anni: già all'alba del decennio ottanta un pilotato "ritorno all'ordine" esplicava chiaramente la fine di ogni illusione. Erano rimasti negli angoli della vecchia Salerno alcuni manifesti, leggermente sbiancati dal tempo: la forma graffiata della balena sollecitava la memoria, fino a rievocare quel "grande mammifero" che nell'autunno del 1938 i salernitani trovarono, dopo una mareggiata, sulla spiaggia di Santa Teresa. Una balena distesa sulla sabbia, oramai sconfitta dai venti di guerra che già spiravano nei cieli italiani. In fondo anche la balena, inseparabile compagna di Salvatore per gran parte degli anni Settanta sapeva di essere stata sconfitta: però non si è lasciata morire sulla spiaggia, lì ove le maree depositano i segni, bensì prese il largo, abbandonò le acque native inabissandosi. Eccola oggi trionfare nel cielo di Como, ritagliata nella sagoma e nello scheletro a raccontare il suo nascosto viaggio: è una balena grande che si dilata, ancora immaginariamente, sull'intera città. Moby Dick torna a tuonare nella mente dell'artista, nella sua monomania, proprio come Achab: è la preda e al tempo stesso il cacciatore, dunque l'immagine della sconfitta, misura cioè dell'impossibilità di poter dare alla società una prospettiva più accettabile.
È incredibile come l'idea della "monumentale" balena, pensata come una grande creatura dell'immaginazione, trovi negli eventi di questi giorni una sua "reale" attualità. L'artista, scriveva Rimbaud, è un veggente, il suo occhio interiore guarda al di là del tempo che lo circonda. Questa balena arenatasi, forse, sulle rive del lago ci dovrebbe far riflettere sull'inquietudine che l'ha spinta a riaffiorare dagli abissi marini, dalle profondità della memoria. Essa riflette certamente l'incertezza (cifra anche dell'incapacità) di rinnovare il proprio statuto, di dichiarare la paura che si cela nell'insoddisfazione sociopolitica che governa la nostra esistenza. È, soprattutto, il nascosto io che guarda la sua "carcassa d'artista", stretta nella consuetudine della globalizzante partecipazione mondana, nelle sclerotiche ritualità.
Nicola Salvatore, è forse questa la sottesa immagine, ha voglia di tornare nell'impeto del "confronto", nella precarietà dell'utopia, nel tempo dilatato dell'attesa che è quello del suo nascosto Mediterraneo.
Massimo Bignardi