Forme nello spazio del mito
Nelle conclusioni del libro "Passaggi", Rosalind Krauss, intrattenendosi sulle opere di Nauman, di Morris, di Serra e di Smithson, riassume il senso di quel suo attraversamento che, dalla scultura di Rodin giunge alla Lane Art, tracciando una nuova strada di lettura della scultura del Ventesimo secolo, «Queste immagini del passaggio - la Krauss si riferisce a quelle degli artisti poc'anzi citati - portano a compimento la mutazione inaugurata da Rodin: trasformano la scultura, medium statico a idealizzato, in un medium temporale e materiale. Pongono in ogni caso sia lo spettatore che l'artista in un atteggiamento dì umiltà elementare di fronte alla scultura (e al mondo), e ci permettono di cogliere la profonda reciprocità che ci lega -artisti e spettatori - all'opera». Il presupposto di trasformare la scultura in medium "temporale e materiale" è il nodo sul quale sembra aver posto l'attenzione, sin dalle opere eseguite a metà degli anni Novanta, Nicola Salvatore: va subito detto, sgombrando il campo da fraintendimenti, che il valore dato ai termini "temporale" e "materiale" non ricalca quello suggerito dalla Krauss. Per Salvatore l'idea di temporalità declina, soprattutto la transitorietà del valore iconico delle immagini: queste sono figure di "oggetti" che l'artista campano attinge alla sfera del primordio narrativo della sua terra, riproposte come frammenti ed impaginati in una prospettiva d'ingrandimento che li riscatta, rilevava anni addietro Flaminio Gualdoni, da «un "deplacement" intellettuale prima ancora che topico». Il concetto di medium materiale, non esplicita solo la materia, il ferro, che l'artista adopera per le grandi sculture realizzate di recente, quanto l'idea che coinvolge innanzitutto i processi tecnologici ed industriali ai quali Salvatore fa ricorso: processi che consentono all'artista di dilatare lo spazio che, parafrasando quanto scrive la Krauss in merito alle opere di Robert Smithson, «alberga al centro del nostro corpo». Se le attenzioni di Smithson erano rivolte ad incorporare il mito nello spazio (corpo) dell'opera, nelle grandi ruote "figurate" di Salvatore il processo formativo s'inverte, tentando strade dirette ad un unico spazio, che è materia e, al tempo stesso, mito,
Una traiettoria di lavoro che prende anche la scultura dal titolo Magma che l'artista ha realizzato per il Real Bosco di Capodimonte a Napoli. È un singolare omaggio al Vesuvio, qui evocato attraverso un cilindro in ferro dall'anima in pietra lavica che, grazie ad effetti luminosi, si offre come forma sospesa fra realtà, quella pulsante che oggi Napoli segnala al mondo, e fantasia, fra immaginazione e racconto. Una forma che è cifra di un'identità antropologica: il Vesuvio come motivo dell'immaginario europeo, con la sua grigia sagoma a tronco dì cono o, meglio, di una forma simbolica che ha sobillato e sobilla il racconto della modernità, disegnando un percorso fra i "territori" del viaggio, cioè nei luoghi del mito, del primordio e dell'archetipo.
L'ombra della pittura avvolge la forma
«L'oggetto d'arte, nuovo fetìccio trionfante (e non triste fetìccio alienato!) - scriveva Baudrillard sul finire degli anni Ottanta - deve lavorare a decostruire da sé la sua aura tradizionale, la sua autorità e la sua potenza di illusione per risplendere nell'oscenità pura della merce. Deve annientarsi come oggetto familiare e diventare mostruosamente straniero». Un orientamento che coinvolge anche la pratica stessa della creatività, vale a dire ì processi formali, le sue categorie e quelli che un tempo potevano essere definiti "soggetti" compartecipi dell'opera: fra questi v'è l'ombra, sulla quale Salvatore ha insistito e insiste da lungo tempo. Non è detto, scrivevo nel testo introduttivo al catalogo della mostra dedicata a Nicola Salvatore e ad Omar Galliani, tenutasi lo scorso anno alla Villa Borromeo di Solare che l'ombra non possa essere il luogo della luce, tantomeno un luogo ove germoglia il colore, come nelle crepe rugose delle figure di Max Ernst. Non va esclusa, anche, l'Ipotesi che il valore assunto dal colore, nei processi compositivi, sia quello dì una sorta di velo, di un'ombra che non deriva dal nulla e quindi non chiede verifica all'oggetto, in pratica si pone come straniera ad esso. Vorrei, però, andare fuori dell'ombra, fuori del puro e semplice riferirsi alle immagini che Nicola Salvatore propone con maggiore insistenza nelle ultime sculture. Anche perché penso che l'ombra sia un dato fin troppo evidente (con gli abusi teorici proposti dalla critica) nei suoi lavori, scoprendo, di contro, come essa non sia altro che il pretesto per indagare il rapporto tra l'oggetto (il suo porsi come nuovo feticcio) e la superficie sulla quale si proietta: un'avvertenza, del resto già segnalata in quella breve nota pubblicata, insieme ad altri apporti critici, nel catalogo della mostra milanese allestita nella primavera del 1996 alla Galleria Manuela Nanni. Più che di superficie, ritengo opportuno parlare di spazio nel quale l'oggetto vive come forma, in aperto confronto con lo spazio che l'artista instaura soprattutto come pittore, seguendo una logica che predilige, anche per la scultura, l'immagine frontale vale a dire, senza negare il desiderio di fornire una dimensione di scena "attraversabile", la determina e la impone come scelta "iconica". Le ultime opere realizzate nella seconda metà degli anni Novanta -penso alla grande colonna solcata in verticale da una linea spezzata, ombra e matrice di una lama di un seghetto da ferro (fortemente ingrandito), ma anche ai cilindri proposti con lo sguardo rivolto maggiormente alla pittura -testimoniano di un processo di analisi del dato visivo, di una attenta articolazione che spinge la forma ad evidenziare l'intero dettato immaginativo. Sostanzialmente, gli oggetti che oggi popolano le curve geometrie delle sue composizioni plastiche, Salvatore li fa derivare dall'esperienza pittorica precedente, dal suo ambizioso progetto di "eternare", con il rito dell'arte, squarci della vita di una fabbrica, e più in generale della sfera della manualità. I suoi oggetti sono elementi che preleva da un repertorio mentale, lontani notevolmente da quelli del "fabbro" Léger, pensando per quest'ultimo alla Composizione con chiavi e ombrello del 1932. In pratica, le forme e gli oggetti di Salvatore non sono elementi prelevati dalla "visione'' della realtà, metaforizzando, come avvertiva Baudrillard, la loro potenza di illusione o, meglio, non sono verifiche del dettato fenomenologico e, soprattutto, riferimenti di forme auliche dell'immaginario. L'elica, il mestolo, il gancio, la sega, le catene... sono degli assunti mentali, delle proposizioni che ricorrono: sono vere e proprie iterazioni mentali, cioè, direbbero gli analisti, "coazioni a ripetere". In Salvatore le immagini sono presenze dì un progetto scoperto alla luce del disegno, del "foglio" bianco (piano, superficie), trasferite poi alla materia, alle sue disponibilità di essere plasmata dalla forma, avvicinando sempre più lo sguardo al ribollente bacino dell'archetipo. Voglio dire che il rapporto instaurato da Salvatore con la sagoma della bottiglia o della conchiglia, richiama un valore immaginativo molto più ampio: nel caso specifico della conchiglia il rapporto è con una forma concava e, nel frattempo, convessa estendendo l'interesse alla sensualità profusa nel cosmo; è nel guardare più in alto che ipotizza Laura Cherubini quando parla di "cosmologia" Qui scatta il meccanismo mentale del colore, del nero bituminoso che l'artista stempera, diluisce realizzando una fitta gamma di toni che ondeggiano tra il nero lucido, riflettente e specchiante e quello opaco, assorbente. È un movimento di luci che anima la superficie, così come registriamo nei dipinti del 1995 esposti nella citata mostra del 1996 a Milano. In quelle opere lo sguardo di Salvatore si muoveva seguendo la luce, dando ad essa il valore di materia che costruisce i piani, che disegna il contorno, la sagoma e così via. La stessa attenzione è posta oggi nel processo ideativo di queste ultime sculture, che solo apparentemente rinunziano al colore. La ruggine orienta i toni, li dispone in modo che le forme assumano un senso narrativo, con marcati accenti espressivi: il colore dell'ossido di ferro "conquista" il valore di tono nel complessivo registro, ove il nero dell'ombra-pittura diviene il punto più luminoso della materia.
Salvatore rimette in gioco, forse come misura ed evidenza di una contraddizione propria di questi nostri anni, i termini "spazio" e "tempo", rileggendo un tracciato che giunge sino alle avanguardie dei primi del secolo, cedendo ancora, però, alla seduzione di un ordine simbolico della rappresentazione. Al primo rapporta la forma, sottolineandone il significato di presenza che essa oggi assume; il secondo, il tempo, è inevitabilmente legato alla materia e per essa alla caducità del proprio corpo. Le materie adoperate, il ferro, il bronzo ma anche la terracotta maiolicata sono sostanze di "presenze", affermazione di quel repertorio di oggetti mentali, quelli che sobillano la retina come suggestioni, come idee, ma che nel contesto non hanno più significato. «Sono idee, segni, allusioni, concetti» osserva ancora Baudrillard, e tutto questo «significa l'assenza del mondo, latine dell'opera, o altro, ma significa». Le sculture realizzate di recente da Nicola Salvatore evidenziano una particolare bellezza evocativa attraverso la messa in evidenza di un repertorio di "oggetti mentali": esse segnalano il desiderio di tentare un possibile approccio con il tempo presente, divenire "avvenimento puro", disposto a spingere in direzione di una concreta aderenza ad esso, misura di un'urgenza etica che pervade lo spazio affollato dalla "tecnologia" informatica.
Forme di grandi spazi
L'esigenza di "aprire" la città alla scultura è un tema divenuto, con molto ritardo rispetto ad altre realtà europee, all'ordine del giorno del dibattito artistico italiano: più che un vero e proprio dibattito è un confronto a distanza, pervaso da dichiarate contraddizioni, ove al centro del contenzioso restano, purtroppo, vecchie normative, specchio di visioni "nostalgiche" della città, in nome della storicità dei "luoghi", o dell'inviolabile armonia del paesaggio e del territorio, si combattono ancora crociate che limitano l'ampiezza dell''orizzonte, combattute, quasi sempre, da ferventi paladini dell'immobilismo, garanti di una "pretestuosa" coscienza storica. Gli esempi di questi che potremmo definire "scempi contro la contemporaneità" sono numerosissimi: basta elencare le cronache degli ultimissimi anni Novanta, dall'intervento di Paladino a Positano, a quello di Mattiacci per la piazza dì Palazzo Ducale ad Urbino, dagli assurdi manifesti contro le opere dì Staccioli collocate nel campo urbano di Pesaro, all'ostilità (giunta sino a giustificare lo scempio) contro la "fontana" di Ugo Marano a Salerno, alla recentissima ed ancora aperta polemica che infervora i benpensanti napoletani contro la fontana eseguita da Ernesto Tatafìore al Vomero. La realtà non è solo al negativo, anzi segnala una situazione piena di vitalità o, meglio, di un fronte che giorno dopo giorno si estende: in tal senso si vedano le esperienze di Campo del Sole a Tuoro sul Trasimeno, il parco della scultura a Viadana, quello dell'Ecoscultura di Diodona, l'Hortus conclusus di Paladino a Benevento, le opere urbane realizzate da Nicola Carrino in Puglia, come anche il grande Faro eseguito nel 1996 da Nicola Salvatore, una scultura in ferro alta 18 metri collocata nell'area dello svincolo autostradale di Como e, non ultimo, il progetto di Marano sulla cima del Monte Cervati nel Parco Nazionale del Cilento. Il problema della scultura nell'urbano, legato o no alla riqualificazione di piazze, di aree dismesse, o come espressione della progettualità di nuovi "arredi", ha acceso l'entusiasmo degli amministratori sia delle grandi metropoli, sia dei piccoli centri: si sta, quindi, disegnando in Italia un nuovo orizzonte della scultura, interessata ad una "dimensione" urbanistica della scultura.
Essa, però, non è l'espressione del monumentalismo, "ohimè" la cui strisciante presenza sparge ancora i suoi segni lungo la penisola, quanto l'idea di una dimensione "storica", che mette in discussione il rapporto fra la scultura, l'architettura e l'urbanistica. Il punto centrale è quello di approdare ad una progettualità che non sia espressione di corpi e processi creativi separati, bensì di attraversamenti convergenti, disegno dì uno spazio per l'uomo contemporaneo nel quale la scultura accentui il senso di "passaggio" di cui parla la Krauss. Un concetto che, anche se da una postazione storicistica, avevo in un certo qual modo segnalato nelle battute iniziali dell'intervento che accompagna il catalogo della mostra "Architettura delle fornaci", tenutasi a Lucera lo scorso anno, alla quale era stato invitato anche Salvatore. In quella occasione, l'analisi della Krauss (riletta alla luce delle annotazioni avanzate da Wim Wenders) mi aveva, involontariamente, sollecitato ad indagare il concetto dì "passaggio" del medium scultura, nel "corpo" della creatività artigiana e dei suoi processi, legando il suo complesso progetto a quello dell'architettura, servendomi delle potenzialità del modulo costruttivo che è, almeno In Italia, ancora il mattone, in quest'ambito vanno collocate le grandi sculture che Nicola Salvatore ha realizzato fra il 1997 e il 1999, ivi comprese quelle oggi sistemate nell' "esedra" d'accesso al Real Bosco di Capodimonte, che appartengono ad un ciclo nel quale l'attenzione dell'artista è rivolta, ha giustamente osservato Marco Meneguzzo, «a considerare le cose con uno stupore primordiale, quasi che per guardarle avessimo dovuto sostituirci all'artista nella fatica di costruirle». Non v'è solo uno stupore, unicamente interiore ed emotivo, quanto l'idea di rapportare la forma ad un nuovo spazio dell'immaginario, esibendo un "fuori scala" che non interessa unicamente le dimensioni, bensì, rileva ancora Meneguzzo, «una questione temporale». È un concetto di tempo, interpretato quale misura del rapporto fra forma e processi creativi, a sobillare l'interesse dell'artista, a spingerlo a riconsiderare il problema dello spazio, dei luoghi, quei territori, annotava Focilion, fatti «materia plastica mutevole»: spazi che sono sempre più prossimi al luogo ideale, ove il margine fra vita e opera si assottigli sempre di più e al contempo sia garante della "fissità" (Focilion) di quest'ultima. In questo senso vanno riconsiderate le mostre allestite da Salvatore a Portonovo del Conero, prim'ancora quella tenutasi nel parco del Grand Hotel di Tremezzo o quella organizzata la scorsa primavera all'Orto Botanico di Milano. Un percorso di mostre che segue una precisa lìnea di ricerca, di confronto con il valore simbolico (il paesaggio, i "giardini", i parchi vantano tale valore) dello spazio che accoglie le opere; esso si relaziona, non a caso è stato scelto il Real Bosco di Capodimonte, con una dimensione (anch'essa fuori scala) mitologica, dando a quest'ultima un significato più esteso che coinvolge, soprattutto, la fertilità del patrimonio antropologico. I grandi "spazi" per Nicola Salvatore sono, sì, fautori di progetti per grandi opere, ma orincipalmente offrono la possibilità di dilatare la forza dell'immaginario, darne quasi le sue coordinate. Grandi mestoli, i ganci o gli altri oggetti del repertorio domestico sono forme di immaginii fatte affiorare prepotentemente dai repertori della memoria, così come lo sono gli spazi che le accolgono, evidenziando (attraverso la referenzialità dell'immagine) l'idea di visibilità della terra, affermando, cioè, quello che Wenders definisce «l'idea di appartenenza alla terra».
Massimo Bignardi
L'ombra della pittura avvolge la forma
«L'oggetto d'arte, nuovo fetìccio trionfante (e non triste fetìccio alienato!) - scriveva Baudrillard sul finire degli anni Ottanta - deve lavorare a decostruire da sé la sua aura tradizionale, la sua autorità e la sua potenza di illusione per risplendere nell'oscenità pura della merce. Deve annientarsi come oggetto familiare e diventare mostruosamente straniero». Un orientamento che coinvolge anche la pratica stessa della creatività, vale a dire ì processi formali, le sue categorie e quelli che un tempo potevano essere definiti "soggetti" compartecipi dell'opera: fra questi v'è l'ombra, sulla quale Salvatore ha insistito e insiste da lungo tempo. Non è detto, scrivevo nel testo introduttivo al catalogo della mostra dedicata a Nicola Salvatore e ad Omar Galliani, tenutasi lo scorso anno alla Villa Borromeo di Solare che l'ombra non possa essere il luogo della luce, tantomeno un luogo ove germoglia il colore, come nelle crepe rugose delle figure di Max Ernst. Non va esclusa, anche, l'Ipotesi che il valore assunto dal colore, nei processi compositivi, sia quello dì una sorta di velo, di un'ombra che non deriva dal nulla e quindi non chiede verifica all'oggetto, in pratica si pone come straniera ad esso. Vorrei, però, andare fuori dell'ombra, fuori del puro e semplice riferirsi alle immagini che Nicola Salvatore propone con maggiore insistenza nelle ultime sculture. Anche perché penso che l'ombra sia un dato fin troppo evidente (con gli abusi teorici proposti dalla critica) nei suoi lavori, scoprendo, di contro, come essa non sia altro che il pretesto per indagare il rapporto tra l'oggetto (il suo porsi come nuovo feticcio) e la superficie sulla quale si proietta: un'avvertenza, del resto già segnalata in quella breve nota pubblicata, insieme ad altri apporti critici, nel catalogo della mostra milanese allestita nella primavera del 1996 alla Galleria Manuela Nanni. Più che di superficie, ritengo opportuno parlare di spazio nel quale l'oggetto vive come forma, in aperto confronto con lo spazio che l'artista instaura soprattutto come pittore, seguendo una logica che predilige, anche per la scultura, l'immagine frontale vale a dire, senza negare il desiderio di fornire una dimensione di scena "attraversabile", la determina e la impone come scelta "iconica". Le ultime opere realizzate nella seconda metà degli anni Novanta -penso alla grande colonna solcata in verticale da una linea spezzata, ombra e matrice di una lama di un seghetto da ferro (fortemente ingrandito), ma anche ai cilindri proposti con lo sguardo rivolto maggiormente alla pittura -testimoniano di un processo di analisi del dato visivo, di una attenta articolazione che spinge la forma ad evidenziare l'intero dettato immaginativo. Sostanzialmente, gli oggetti che oggi popolano le curve geometrie delle sue composizioni plastiche, Salvatore li fa derivare dall'esperienza pittorica precedente, dal suo ambizioso progetto di "eternare", con il rito dell'arte, squarci della vita di una fabbrica, e più in generale della sfera della manualità. I suoi oggetti sono elementi che preleva da un repertorio mentale, lontani notevolmente da quelli del "fabbro" Léger, pensando per quest'ultimo alla Composizione con chiavi e ombrello del 1932. In pratica, le forme e gli oggetti di Salvatore non sono elementi prelevati dalla "visione'' della realtà, metaforizzando, come avvertiva Baudrillard, la loro potenza di illusione o, meglio, non sono verifiche del dettato fenomenologico e, soprattutto, riferimenti di forme auliche dell'immaginario. L'elica, il mestolo, il gancio, la sega, le catene... sono degli assunti mentali, delle proposizioni che ricorrono: sono vere e proprie iterazioni mentali, cioè, direbbero gli analisti, "coazioni a ripetere". In Salvatore le immagini sono presenze dì un progetto scoperto alla luce del disegno, del "foglio" bianco (piano, superficie), trasferite poi alla materia, alle sue disponibilità di essere plasmata dalla forma, avvicinando sempre più lo sguardo al ribollente bacino dell'archetipo. Voglio dire che il rapporto instaurato da Salvatore con la sagoma della bottiglia o della conchiglia, richiama un valore immaginativo molto più ampio: nel caso specifico della conchiglia il rapporto è con una forma concava e, nel frattempo, convessa estendendo l'interesse alla sensualità profusa nel cosmo; è nel guardare più in alto che ipotizza Laura Cherubini quando parla di "cosmologia" Qui scatta il meccanismo mentale del colore, del nero bituminoso che l'artista stempera, diluisce realizzando una fitta gamma di toni che ondeggiano tra il nero lucido, riflettente e specchiante e quello opaco, assorbente. È un movimento di luci che anima la superficie, così come registriamo nei dipinti del 1995 esposti nella citata mostra del 1996 a Milano. In quelle opere lo sguardo di Salvatore si muoveva seguendo la luce, dando ad essa il valore di materia che costruisce i piani, che disegna il contorno, la sagoma e così via. La stessa attenzione è posta oggi nel processo ideativo di queste ultime sculture, che solo apparentemente rinunziano al colore. La ruggine orienta i toni, li dispone in modo che le forme assumano un senso narrativo, con marcati accenti espressivi: il colore dell'ossido di ferro "conquista" il valore di tono nel complessivo registro, ove il nero dell'ombra-pittura diviene il punto più luminoso della materia.
Salvatore rimette in gioco, forse come misura ed evidenza di una contraddizione propria di questi nostri anni, i termini "spazio" e "tempo", rileggendo un tracciato che giunge sino alle avanguardie dei primi del secolo, cedendo ancora, però, alla seduzione di un ordine simbolico della rappresentazione. Al primo rapporta la forma, sottolineandone il significato di presenza che essa oggi assume; il secondo, il tempo, è inevitabilmente legato alla materia e per essa alla caducità del proprio corpo. Le materie adoperate, il ferro, il bronzo ma anche la terracotta maiolicata sono sostanze di "presenze", affermazione di quel repertorio di oggetti mentali, quelli che sobillano la retina come suggestioni, come idee, ma che nel contesto non hanno più significato. «Sono idee, segni, allusioni, concetti» osserva ancora Baudrillard, e tutto questo «significa l'assenza del mondo, latine dell'opera, o altro, ma significa». Le sculture realizzate di recente da Nicola Salvatore evidenziano una particolare bellezza evocativa attraverso la messa in evidenza di un repertorio di "oggetti mentali": esse segnalano il desiderio di tentare un possibile approccio con il tempo presente, divenire "avvenimento puro", disposto a spingere in direzione di una concreta aderenza ad esso, misura di un'urgenza etica che pervade lo spazio affollato dalla "tecnologia" informatica.
Forme di grandi spazi
L'esigenza di "aprire" la città alla scultura è un tema divenuto, con molto ritardo rispetto ad altre realtà europee, all'ordine del giorno del dibattito artistico italiano: più che un vero e proprio dibattito è un confronto a distanza, pervaso da dichiarate contraddizioni, ove al centro del contenzioso restano, purtroppo, vecchie normative, specchio di visioni "nostalgiche" della città, in nome della storicità dei "luoghi", o dell'inviolabile armonia del paesaggio e del territorio, si combattono ancora crociate che limitano l'ampiezza dell''orizzonte, combattute, quasi sempre, da ferventi paladini dell'immobilismo, garanti di una "pretestuosa" coscienza storica. Gli esempi di questi che potremmo definire "scempi contro la contemporaneità" sono numerosissimi: basta elencare le cronache degli ultimissimi anni Novanta, dall'intervento di Paladino a Positano, a quello di Mattiacci per la piazza dì Palazzo Ducale ad Urbino, dagli assurdi manifesti contro le opere dì Staccioli collocate nel campo urbano di Pesaro, all'ostilità (giunta sino a giustificare lo scempio) contro la "fontana" di Ugo Marano a Salerno, alla recentissima ed ancora aperta polemica che infervora i benpensanti napoletani contro la fontana eseguita da Ernesto Tatafìore al Vomero. La realtà non è solo al negativo, anzi segnala una situazione piena di vitalità o, meglio, di un fronte che giorno dopo giorno si estende: in tal senso si vedano le esperienze di Campo del Sole a Tuoro sul Trasimeno, il parco della scultura a Viadana, quello dell'Ecoscultura di Diodona, l'Hortus conclusus di Paladino a Benevento, le opere urbane realizzate da Nicola Carrino in Puglia, come anche il grande Faro eseguito nel 1996 da Nicola Salvatore, una scultura in ferro alta 18 metri collocata nell'area dello svincolo autostradale di Como e, non ultimo, il progetto di Marano sulla cima del Monte Cervati nel Parco Nazionale del Cilento. Il problema della scultura nell'urbano, legato o no alla riqualificazione di piazze, di aree dismesse, o come espressione della progettualità di nuovi "arredi", ha acceso l'entusiasmo degli amministratori sia delle grandi metropoli, sia dei piccoli centri: si sta, quindi, disegnando in Italia un nuovo orizzonte della scultura, interessata ad una "dimensione" urbanistica della scultura.
Essa, però, non è l'espressione del monumentalismo, "ohimè" la cui strisciante presenza sparge ancora i suoi segni lungo la penisola, quanto l'idea di una dimensione "storica", che mette in discussione il rapporto fra la scultura, l'architettura e l'urbanistica. Il punto centrale è quello di approdare ad una progettualità che non sia espressione di corpi e processi creativi separati, bensì di attraversamenti convergenti, disegno dì uno spazio per l'uomo contemporaneo nel quale la scultura accentui il senso di "passaggio" di cui parla la Krauss. Un concetto che, anche se da una postazione storicistica, avevo in un certo qual modo segnalato nelle battute iniziali dell'intervento che accompagna il catalogo della mostra "Architettura delle fornaci", tenutasi a Lucera lo scorso anno, alla quale era stato invitato anche Salvatore. In quella occasione, l'analisi della Krauss (riletta alla luce delle annotazioni avanzate da Wim Wenders) mi aveva, involontariamente, sollecitato ad indagare il concetto dì "passaggio" del medium scultura, nel "corpo" della creatività artigiana e dei suoi processi, legando il suo complesso progetto a quello dell'architettura, servendomi delle potenzialità del modulo costruttivo che è, almeno In Italia, ancora il mattone, in quest'ambito vanno collocate le grandi sculture che Nicola Salvatore ha realizzato fra il 1997 e il 1999, ivi comprese quelle oggi sistemate nell' "esedra" d'accesso al Real Bosco di Capodimonte, che appartengono ad un ciclo nel quale l'attenzione dell'artista è rivolta, ha giustamente osservato Marco Meneguzzo, «a considerare le cose con uno stupore primordiale, quasi che per guardarle avessimo dovuto sostituirci all'artista nella fatica di costruirle». Non v'è solo uno stupore, unicamente interiore ed emotivo, quanto l'idea di rapportare la forma ad un nuovo spazio dell'immaginario, esibendo un "fuori scala" che non interessa unicamente le dimensioni, bensì, rileva ancora Meneguzzo, «una questione temporale». È un concetto di tempo, interpretato quale misura del rapporto fra forma e processi creativi, a sobillare l'interesse dell'artista, a spingerlo a riconsiderare il problema dello spazio, dei luoghi, quei territori, annotava Focilion, fatti «materia plastica mutevole»: spazi che sono sempre più prossimi al luogo ideale, ove il margine fra vita e opera si assottigli sempre di più e al contempo sia garante della "fissità" (Focilion) di quest'ultima. In questo senso vanno riconsiderate le mostre allestite da Salvatore a Portonovo del Conero, prim'ancora quella tenutasi nel parco del Grand Hotel di Tremezzo o quella organizzata la scorsa primavera all'Orto Botanico di Milano. Un percorso di mostre che segue una precisa lìnea di ricerca, di confronto con il valore simbolico (il paesaggio, i "giardini", i parchi vantano tale valore) dello spazio che accoglie le opere; esso si relaziona, non a caso è stato scelto il Real Bosco di Capodimonte, con una dimensione (anch'essa fuori scala) mitologica, dando a quest'ultima un significato più esteso che coinvolge, soprattutto, la fertilità del patrimonio antropologico. I grandi "spazi" per Nicola Salvatore sono, sì, fautori di progetti per grandi opere, ma orincipalmente offrono la possibilità di dilatare la forza dell'immaginario, darne quasi le sue coordinate. Grandi mestoli, i ganci o gli altri oggetti del repertorio domestico sono forme di immaginii fatte affiorare prepotentemente dai repertori della memoria, così come lo sono gli spazi che le accolgono, evidenziando (attraverso la referenzialità dell'immagine) l'idea di visibilità della terra, affermando, cioè, quello che Wenders definisce «l'idea di appartenenza alla terra».
Massimo Bignardi