Immagini Sospese
Scritture per Omar Galliani e Nicola Salvatore

« Da dove "piovono" le immagini nella fantasia? » si chiede Calvino in una delle sue celebri Lezioni americane, discutendo della visibilità. E' un quesito che si pone come riflessione intorno alla formazione dell'immaginario in un'epoca «in cui la letteratura non si richiama più ad un'autorità o ad una tradizione come sua origine o come fine, ma punta sulla novità, l'originalità, l'invenzione». Riflessione che potremmo estendere, lo segnala lo stesso Calvino quando parla di "immagini visuali", al campo delle arti visive, al vasto territorio nel quale oggi convergono sollecitazioni provenienti da più ambiti di ricerca.
E' in tale direzione che si pone la traccia di questa mostra dedicata al confronto fra due artisti che, da sponde diverse, dialetticamente ripropongono la centralità dell'immagine, il suo attestarsi ancora (quale misura di una necessità interiore) come elaborazione figurale di un pensiero.
Il confronto è fra le sculture di Nicola Salvatore e i dipinti di Omar Galliani: innanzitutto, quindi, il confronto è fra V immagine -forma, tema indagato da Salvatore sin dalle opere dei primi anni Novanta e l'immagine - superficie sulla quale insiste con grande coerenza Galliani.
Va precisato, sgombrando il terreno da facili fraintendimenti, che la mostra mira, con sottesa cautela, ad avvicinare le posizioni, ragionando sulle immagini, sulla loro natura (intesa da Calvino come «spirito del testo di partenza»), tenendo in secondo piano le relazioni con la materia e con i processi formali. In tal senso va letta la scelta di inserire, come cerniera di un circolare tracciato espositivo ai cui poli estremi sono poste le due grandi opere, un cospicuo numero di disegni: è il tentativo di riportare l'immagine quanto più vicina allo stato emotivo, a quella «caduta brusca - scrive Sartre - della coscienza nel magico» per far si che, ricorro ancora a Calvino, la fantasia (e in generale la creatività) sia «intrisa di memoria, di necessità, di realtà insomma». E' per me tracciare un ulteriore percorso di viaggio, orientandosi (guardare ad Oriente, da dove nasce la luce che non è unicamente la verità) fra gli orditi di una contemporaneità, spesso ingombrata dagli "acidi vapori" di una mondanità animata dal teatro delle apparenze, dalla violenza partorita dalla solitudine. Un viaggio che compie il mio sguardo circumnavigando le immagini, le forme, le atmosfere della quotidianità. E' quel tipo di viaggio che Pessoa consiglia al suo lettore: « Viaggiare? Per viaggiare basta esistere. Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o del mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i passeggeri. Se immagino, vedo. Che altro faccio se viaggio? Soltanto l'estrema debolezza deh "immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire.. ..La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo».

L'ombra avvolge la forma.
Non è detto che l'ombra non possa essere il luogo della luce, tantomeno un luogo ove germoglia il colore, come nelle crepe rugose delle figure di Max Ernst. Non va esclusa, anche, l'ipotesi che il valore assunto dal colore, nei processi compositivi, sia una sorta di velo, di un'ombra che non deriva da nulla e quindi non chiede verifica all'oggetto. Vorrei, però, andare fuori dell'ombra, fuori del puro e semplice riferirsi alle immagini che Nicola Salvatore propone, con maggiore insistenza nelle ultime sculture. Anche perché penso che l'ombra sia un dato fin troppo evidente (con gli abusi teorici proposti dalla critica) nei lavori di Salvatore, scoprendo, di contro, come essa non sia altro che il pretesto per indagare il rapporto tra l'oggetto e la superficie sulla quale si proietta. Più che la superficie, ritengo opportuno parlare di spazio nel quale l'oggetto vive come forma.
Confronto con lo spazio che l'artista instaura soprattutto come pittore, seguendo una logica che predilige, anche per la scultura, l'immagine frontale o, meglio, senza negare il desiderio di fornire una dimensione di scena "attraversabile". Le ultime opere, penso alla grande colonna solcata in verticale da una linea spezzata, ombra e matrice della lama di un seghetto per ferro (fortemente ingrandito) ma anche ai cilindri proposti con un occhio rivolto maggiormente alla pittura, testimoniano di un processo di analisi del dato visivo, di una attenta articolazione che spinge la forma ad evidenziare l'intero dettato immaginativo. Sostanzialmente gli oggetti che oggi popolano le geometrie curve delle sue composizioni plastiche, Salvatore le fa derivare dalla sua pittura precedente, dal suo ambizioso progetto di "eternare", con il rito dell'arte, squarci della vita di una fabbrica, e più in generale della sfera della manualità. I suoi oggetti sono elementi che preleva da un repertorio mentale, lontani notevolmente da quelli del "fabbro" Léger, pensando per quest'ultimo alla Composizione con chiavi e ombrello del 1932. Voglio dire che le forme e gli oggetti di Salvatore non sono elementi prelevati dalla "visione" della realtà, cioè che non sono verifiche del dettato fenomenologico e, soprattutto, riferimenti di forme auliche dell'immaginario. L'elica, il mestolo, il gancio, la sega, le catene... sono degli assunti mentali, delle proposizioni che ricorrono: in altre parole vere e proprie iterazioni mentali cioè, direbbero gli analisti, '"coazioni a ripetere". In Salvatore le immagini sono presenze di un progetto scoperto alla luce del disegno, del "foglio"' bianco i piano, superficie i. trasferite poi alla materia, alle sue disponibilità di essere plasmata dalla fonna. avvicinando sempre più lo sguardo al ribollente bacino dell'archetipo. O meglio che il rapporto instaurato da Salvatore con la sagoma della bottiglia o della conchiglia, richiama in se un valore immaginativo molto più ampio: nel caso specifico della conchiglia, il rapporto è con una forma concava e, nel frattempo, convessa e per essa con una sensualità profusa nel cosmo. E' qui che scatta il meccanismo mentale del colore, del nero bituminoso che l'artista stempera, diluisce realizzando una fitta gamma di toni che ondeggiano tra il nero lucido, riflettente e specchiante e quello opaco, assorbente. E' un movimento di luci che anima la superficie, così come registriamo nei dipinti del 1995 esposti a Milano alla Galleria Manuela Nanni. In quelle opere lo sguardo di Salvatore si muoveva seguendo la luce, dando ad essa il valore di materia che costruisce i piani, che disegna il contorno, la sagoma e così via. La stessa attenzione è posta oggi nel processo ideativo di queste ultime sculture che, solo apparentemente, rinunziano al colore. E' la ruggine ad orientare i toni, a disporli in modo che le forme assumano un senso narrativo, con marcati accenti espressivi: "conquista" il valore di tono nel complessivo registro, ove il nero dell'ombra- pittura diviene il punto più luminoso della materia. Salvatore rimette in gioco, forse come misura ed evidenza di una contraddizione propria di questi nostri anni, i termini "spazio" e "tempo", rileggendo un tracciato che giunge sino alla avanguardie dei primi del secolo. Al primo rapporta la forma, rilevandone il significato di presenza che essa oggi assume; il secondo, il tempo, è inevitabilmente legato alla materia, metafora del confronto con il proprio corpo e quindi come considerazione sulla caducità della materia (del corpo). Le materie adoperate, il ferro, il bronzo ma anche la terracotta maiolicata sono sostanze di "presenze", di quei suoi oggetti mentali, di quelli sobillati sulla retina come suggestioni, come idee ma che nel contesto non hanno più significato. « Sono idee, segni, allusioni, concetti » - scrive Baudrillard intervenendo nel dibattito artistico sul finire degli anni Ottanta - « tutto questo significa l'assenza del mondo, la fine dell'opera, o altro, ma significa ».
Le sculture realizzate da Nicola Salvatore nel corso di questi ultimi anni, evidenziano una particolare bellezza evocativa: attraverso la messa in evidenza di un repertorio di "oggetti mentali", esse segnalano il desiderio di tentare un possibile approccio con il tempo presente, di spingere in direzione di una concreta aderenza; misura di un'urgenza etica che pervade lo spazio affollato dalla "tecnologia" informatica.

Sul "paesaggio" del corpo.
Dall'orizzonte spira una leggera brezza, è un alito fresco che sale dal mare, muove le fronde alte degli alberi e si adagia nel bianco delle tende. Le gonfia come vele di antichi vascelli, facendo ruotare i pizzi nel candore di una luce azzurrina come veli di ballerine, simulando i passi di una danza sul bordo del davanzale, sulla soglia bianca di marmo sulla quale si distende il paesaggio della costa.
Nella stanza il mormorio delle immagini fa compagnia al leggero graffiare della matita che le depone sul foglio, sulla tavola; la matita, morbida di grigi che modulano la pressione delle dita, corre sull'increspata superficie della carta, o insegue le venature del legno, ora esaltandone i nodi, divenuti vistosi punti neri, ora incidendo un volto di donna dentro la fitta rete di linee, nel reticolo del chiaroscuro. Il corpo si dilata nell'ombra nera che riempie la superficie; è il volto luminoso, a dare alla forma il corpo, la materia vibrante della vita, che l'artista narra nel luminoso susseguirsi dei riflessi sulle perle che profilano il collo. Anni fa, scrivendo delle opere realizzate da Galliani nei suoi lunghi soggiorni a Ravello, osservavo che l'artista aveva visto Parsifal sospeso sul filo luminoso di perle che brillano sul mare, scrivevo di come egli avesse inseguito la trasparente immagine che scavò nell'antro del suo cuore, sguainando, come nel poema di Chretien de Troyes, in alto la spada. Ravello è, secondo la feconda immaginazione di Wagner, il luogo magico del racconto, il territorio delle avventure di re Artù, la misteriosa terra del Graal: uno spazio senza precise coordinate ove è possibile dar vita ad un infinito racconto di visioni.
La sanguigna vela di nostalgia i contorni del paesaggio, trascinato in avanti dal vento e lasciato affiorare nei riverberi dei raggi del sole, sulla superficie luminosa del vetro. Porta con sé le ombre cupe delle torri, dei campanili intrecciati agli alti cipressi che fanno da guardia alla dimora che un tempo fu di Landolfo Rufolo, il contorno delle sue figure, Galliani l'ha raccolto dal sogno, come una figura della notte, un amore elettivo bretoniano, un nadir che vola alto nei cieli dei desideri, svelando la seduzione, come Narciso (Galliani stesso | scopre nello specchio dello stagno (nella trama della pittura) la sua immagine. L'artista ricompone sul foglio la lenta ed ossessiva rigenerazione di quanto con pazienza ha osservato nella cornice di quella terrazza, Ravello, spalancata sul Mediterraneo, cercando di plasmare (lo fa con il pollice della mano o con la gommapane) l'imprendibile materia del disegno: è questo il modo per ancorare il tempo interiore a quello della contemporaneità, cercando, cioè, di indagare una costante volontà che permetta « alla pittura - scrive Michel Leiris a proposito di André Masson - di vivere la propria vita». Il segno della grafite che in Galliani assume un valore pittorico, ci svela l'immagine, la sua lontana e misteriosa nascita, le sue potenziali capacità emotive ad evocare, a far sprofondare la realtà che ci circonda, ma anche a misurare l'affanno dell'occhio che la rincorre nella mente, nel tentativo di restituirle i contorni della fisicità.
La figura come anche il motivo del paesaggio che Galliani ha spiato dalla terrazza di Ravello, sono assunti quali tracce del suo lungo errare nelle pagine dell'arte: è un evento particolare che lo trascina in uno spazio animato dal frenetico pulsare di presenze, di temi, di allegorie, di suoni che l'artista traduce in partiture di luci preziose sospese sull'immagine.
Il paesaggio dei declini incantati e magici dello "scenario italiano", i sentieri tracciati dalle linee che incorniciano un volto o il corpo luminoso di una figura (immagine fatta affiorare dalla "terra dei fantasmi" o meglio dall'inconscio), sono per Galliani le tappe di un ulteriore viaggio nel territorio della pittura, oserei dire il pretesto per sporgere il proprio corpo nelle "arie" di una storia futura, come un moderno viaggiatore, aprendo la retina alla visione di figure che affiorano da racconti, da intimi dialoghi con le immagini del quotidiano. Le sue opere, le carte e le tavole che perimetrano lo studio di Montecchio Emilia, respirano il sospiro che muove e fa vivere i corpi trasparenti di impalpabili ricordi, le ombre che addensano brani di viaggi dello sguardo, del suo correre nella realtà sensibile delle cose, nelle atmosfere di paesaggi abitati da immagini che sollecitano analogie o, meglio, danno un contorno alla figura, a quell'anima alla quale guarda Jung. E" la personificazione di quei sentimenti non ben definiti, vaghi, dai contorni imprecisi che segnalano l'irrazionale, «l'amore di sé - osserva Marie Louise von Franz- il sentimento della natura, e l'atteggiamento nei confronti dell'inconscio». Galliani spinge, come gesto d'amore "di sé" affinché l'anima trovi un corpo nelle venature del legno, delle porose o ruvide superfici delle carte, nella "terrosa" materia del pastello nero, nella natura minerale della grafite. L'amore, scrive losif Brodskij, « è una liaison tra un riflesso e il suo oggetto».

Massimo Bignardi